Processo Miccoli, la difesa torna all’attacco in appello «Per una frase sbagliata sconta ergastolo mediatico»

Si arriva di nuovo alle battute finali, con gli avvocati difensori Giovanni Castronovo e Francesco Caliandro che tornano a battersi, in appello, per Fabrizio Miccoli. L’ex bomber rosanero, condannato in primo grado nel 2017 a tre anni e sei mesi per concorso esterno in estorsione aggravata dal metodo mafioso, ha ascoltato l’arringa dei suoi avvocati stamattina, apparendo turbato e giù di corda. Secondo l’ipotesi messa in piedi dall’accusa, l’ex calciatore si sarebbe avvalso dell’amico Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino u scintilluni e processato a parte insieme a Gioacchino Alioto (per entrambi il reato è stato riqualificato nel meno grave di violenza privata), perché intenzionato a recuperare il credito vantato da Giorgio Gasparini, ex fisioterapista del Palermo, nei confronti di Andrea Graffagnini, l’agente dei vip. I due, infatti, erano stati soci insieme della discoteca di Isola delle Femmine I Paparazzi. Miccoli sarebbe stato una sorta di tramite, ma per l’accusa rivolgendosi proprio a Lauricella avrebbe tentato di innescare precise forme di risoluzione tipiche delle cosche mafiose.

Una ricostruzione dalla quale l’ex bomber ha sempre preso le distanze. «Oggi ho sottolineato che intanto deve essere rivalutata la sua persona perché è stato dipinto come un delinquente, mentre in realtà non lo è, è una brava persona – afferma con forza l’avvocato Castronovo -. A Palermo, oltre ad aver avuto qualche amicizia scomoda, sarebbe stato impossibile per lui, un idolo della folla, capire se si confronta con una persona perbene o un delinquente, non mi pare che sia dovuto o anche opportuno chiedere il casellario giudiziario a un tifoso che conosci tramite il calcio. Miccoli ha fatto tanta beneficenza e ha partecipato a tante iniziative sociali anche a fianco di uomini delle istituzioni, ufficiali di polizia, carabinieri, procuratori», racconta, ricordando le diverse iniziative in cui l’ex calciatore si è impegnato in passato. «Un uomo del popolo palermitano – dice ancora il legale -, in tanti facevano a gara per avere un rapporto con lui. Non si può utilizzare quella frase infausta nei confronti di Falcone, per la quale si è scusato pubblicamente e per cui viene ancora oggi additato. Per questo parlo di ergastolo mediatico che sconta da quando è circolata».

Perché, sentenza a parte, che ha lasciato Miccoli di stucco, la percezione di lui come personaggio tra i palermitani sembrerebbe nel tempo essersi molto ridimensionata. Specie alla luce anche della clamorosa frase intercettata durante le indagini e divenuta poi pubblica, nella quale lui definiva il giudice Falcone «un fango». Una leggerezza per la quale ha più volte chiesto scusa, ma che in molto non riescono a dimenticare. «Ha detto candidamente di aver sbagliato, ma ancora questo non gli viene perdonato. Mentre oggi ci si indigna molto meno per quegli uomini delle istituzioni o della magistratura beccati a delinquere – incalza l’avvocato Castronovo -. La vicenda mi auguro che venga rivalutata da parte della corte d’appello, ci auspichiamo che riformi la sentenza di primo grado e assolva Miccoli. Il fatto non sussiste, lui si è limitato a fare un favore a un amico per recuperare dei soldi dovuti, per ammissione delle stesse presunte persone offese che non si sono nemmeno costituite parti civili, e non ci sono i presupposti per parlare di estorsione aggravata perché non c’è stata mai minaccia nei confronti di nessuno, né da parte sua né di Lauricella che si interessò della vicenda».

Secondo la difesa non ci sarebbe mai stato neppure un presunto ingiusto profitto «perché era originariamente un debito da 12mila euro, chiuso poi con 4.500 euro, quindi al ribasso, per cui sotto il profilo giuridico non c’è nulla che possa giustificare un’estorsione addirittura aggravata dal metodo mafioso – dice ancora il legale -. Quindi siamo convinti che questa corte d’appello possa assolverlo e ridargli la tranquillità che gli è mancata in questi anni, tanto da farlo smettere di giocare e di non celebrare la sua partita di addio al calcio, a cui avrebbe avuto pieno diritto». E dire che, due anni fa, il pm Maurizio Bonaccorso (in seguito trasferito alla procura di Caltanissetta) aveva chiesto l’archiviazione per Miccoli. Ipotizzando, piuttosto che il reato di estorsione, quello dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Due reati che si distinguono fra loro non per la materialità del fatto, piuttosto per l’intenzionalità che, a prescindere dalla portata delle intimidazioni, si trasforma in estorsione solo quando si cerca di attuare una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria. Dopo il rigetto del giudice, però, l’accusa è tornata a cavalcare l’impianto originario, sino a chiedere e ottenere, con un altro magistrato incaricato del caso, la condanna di Miccoli. Il suo contributo alla realizzazione del reato, secondo il giudice, sarebbe stato «variegato e reiterato».

«L’imputato – si legge nelle oltre 300 pagine delle motivazioni a sua firma – non solo ha assolto il ruolo di mandante determinatore attraverso il conferimento dell’incarico a Mauro Lauricella, in tal modo dando l’impulso decisivo ad una vicenda che senza la sua iniziativa non si sarebbe mai verificata, ma ha altresì ideato e deliberato l’attribuzione di un compenso allo stesso Lauricella sotto forma di decurtazione della somma destinata a Giorgio Gasparini. Del resto la consapevole deliberazione da parte di Fabrizio Miccoli di attribuire un compenso a Mauro Lauricella appare frutto di una volontà ferma e decisa». A ragion veduta anche del fatto che, amicizia a parte, l’ex calciatore sarebbe stato consapevole dell contesto famigliare di appartenenza dell’uomo a cui aveva deciso di rivolgersi per risolvere la questione. Intanto, questo stesso impianto accusatorio viene portato avanti adesso in appello. E oggi come allora la difesa dell’ex calciatore insiste perché non si arrivi nuovamente a «sentenza illogica», come fu definita già quella di primo grado. Sentenza per la quale, a conti fatti, «abbiamo un estorsore, secondo il quadro dipinto dalla pubblica accusa, che viene assolto e il mandante che viene condannato. Una condanna, però, sulla base di elementi per i quali la Procura stessa aveva prima chiesto l’archiviazione». 


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