«Non è lui Mered»: la sentenza, la scarcerazione, il Cpr «L’espulsione un colpo di spugna sull’errore giudiziario?»

Ci è stato raccontato in circa sessanta udienze, in un numero enorme di ore di dibattimento, che le autorità italiane, insieme a quelle inglesi e a quelle africane, nell’ambito di un’indagine per contrastare il traffico di migranti, sono riuscite a identificare una persona: Medhanie Yehdego Mered, il Generale, uno dei principali boss della tratta di esseri umani. Ci è stato più volte spiegato che la fotografia di quest’uomo è stata mandata alle autorità sudanesi, che hanno prontamente messo a segno un arresto. È lui, il temibile boss. Lo hanno portato via da una sala da the e l’hanno estradato in Italia. Peccato però che questa persona a quella famosa foto del trafficante non assomigli nemmeno un po’. Persino gli inquirenti che volano alla volta di Khartoum per portarlo in Italia, vedendolo, impietriscono. «Ebbi dubbi», ci ha raccontato proprio uno di loro durante il processo. Dubbi che, malgrado siano affiorati sul nascere di questa assurda storia, non hanno impedito che andasse avanti. Al contrario, un stillicidio di udienze, perizie, testimonianze e ricostruzioni durate tre anni.

Abbiamo potuto apprendere, e questa è una verità processuale, che l’uomo arrestato e tenuto in carcere per tre anni in Italia non è in realtà quel Generale tanto cercato dalle autorità di mezza Europa. C’è una sentenza che lo dice. Non è lui Mered. Anche se è la stessa sentenza che, tuttavia, punisce Medhanie Tesfamariam Behre, a cui dopo tre lunghi anni un giudice ha restituito la dignità del suo nome. Ma una condanna, seppur irrisoria rispetto ai 14 anni chiesti dal pm e ritenuta già scontata, c’è. Una vittoria a metà, in un certo senso. Cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Chi questa storia non la conosce e la sente oggi per la prima volta, non può forse non pensare che sì, non era il trafficante che tutti cercavano – e che di fatto ad oggi è ufficialmente a piede libero -, ma per beccarsi una condanna un reato deve pur averlo commesso. Se no perché mai una corte dovrebbe riconoscergli una qualunque pena? Una domanda logica, lecita. Che trova, però, sempre nella stessa storia la sua risposta. Ha mandato dei soldi a dei trafficanti di uomini, era in contatto con loro. È vero? Certo, lo ha detto lui stesso. Che però non è un complice che dà una mano a un sistema criminale, ma un cugino spaventato che aiuta un parente a liberarsi dalla morsa della prigionia libica per imbarcarsi alla volta di una vita nuova.

Il viaggio di un migrante non è un volo solo andata sul comodo seggiolino di un aereo. È un calvario fatto di più tappe, in un crescendo di pericoli e rinunce. Dal deserto alle mezra della Libia. Solo dopo viene quel barcone malandato e la scommessa del Mediterraneo. Nel frattempo, se vuoi andare avanti e sopravvivere, devi pagare. Una, due, tre, tante volte quante vorranno i trafficanti che tengono in mano la tua vita. Ma se i soldi ti finiscono, dove prendi il resto per continuare il viaggio? Dalla tua famiglia, dai tuoi parenti. Li metti in contatto coi tuoi aguzzini, che stabiliscono cifre, regole e modalità. I soldi arrivano e il viaggio riprende, e così anche la tua vita. Un sistema ampiamente riconosciuto e documentato, anche nelle carte dell’inchiesta in cui è rimasto coinvolto Behre, e che contribuisce a rendere i migranti ancor di più vittime di un sistema criminale spietato. Che non ha mai fatto dei parenti che li hanno aiutati a liberarsi dei complici o dei criminali. Perché Behre invece dovrebbe esserlo? Perché per lui il ragionamento applicato a qualunque altro migrante e suo familiare non vale?

Forse la risposta potrebbe essere nelle motivazioni della sentenza, attese nei prossimi mesi. Intanto, c’è un giudice che ha disposto la scarcerazione immediata di Behre. Lo scortano fino al Pagliarelli, dov’è stato rinchiuso nel 2016, per prendere le sue poche cose. E da lì in effetti esce, ma è tutto fuorché un uomo libero. Ai polsi ci sono di nuovo le manette e di fianco a lui gli agenti della penitenziaria, lo accompagnano a bordo di un furgoncino e lo portano a Caltanissetta, senza dargli nemmeno la possibilità di incontrare il suo avvocato, perché possa spiegargli cosa sta succedendo. L’ennesimo viaggio non programmato e di certo non voluto, stavolta verso il Cpr di Pian del Lago. «Il questore ha fatto un provvedimento di trattenimento in attesa di espulsione – spiega Michele Calantropo, avvocato dell’eritreo protagonista di questa vicenda senza fine – come prevedono il decreto sicurezza e la legge sulla protezione internazionale. Ancora continuano a parlare di associazione a delinquere finalizzata al traffico di migranti nel provvedimento», nonostante, come già detto, la sentenza della seconda corte d’assise di Palermo. Oggi a Caltanissetta ci sarà dunque un’ulteriore udienza per decidere se convalidare o meno questo provvedimento. E i possibili scenari sono tutt’altro che rosei per Behre, intrappolato in un caso più grande di lui, che adesso rischia veramente che la pena sia addirittura peggiore rispetto a quella che avrebbe potuto scontare se fosse stato davvero lui quel Generale.

Trattenerlo al Cpr di Pian del Lago a tempo indeterminato o espellerlo. Queste le sue possibilità. Quest’ultima tecnicamente meno plausibile, considerando che in Sudan, dove viveva e dove è stato prelevato mentre stava bevendo un the, non può tornare, non essendo un cittadino sudanese, ma neanche nel suo Paese, l’Eritrea, sarebbe il benvenuto, visto che è scappato per sfuggire alla guerra sarebbe considerato un disertore e per questo sarebbe processato e andrebbe incontro a pene durissime, tra cui anche quella di morte. Questo non è permesso dal diritto internazionale, dunque il giovane potrebbe semplicemente essere accompagnato al confine. Ma quale? Trattandosi di leggi europee dovrebbe essere accompagnato in un Paese esterno all’Unione. Uno stato africano? La Russia? La Svizzera forse? Lo scenario più tristemente probabile è quello che Behre possa rimanere ancora per molto, molto tempo dietro alle sbarre del Cpr di Pian del Lago.

«Anziché aspettare prima la richiesta di asilo – continua l’avvocato Calantropo – lo hanno preso e portato direttamente in un Cpr. Inutile spiegarlo, la tempistica, la decisione… Ritengo che questo sia l’ennesimo schiaffo alla sua libertà. Lui ha capito la situazione solo quando gliel’ho spiegata io, quando ci siamo visti, fino a prima di quel momento non aveva inteso nulla di quello che stava accadendo». Un colpo di scena, l’ennesimo, che ha colpito ancora una volta l’eritreo, che già è stato duramente provato da tre anni di carcere in un Paese straniero, privato anche della propria identità. «Aveva un ordine firmato dal giudice che diceva che era stato liberato, però si trovava in un altro carcere, perché i Cpr di fatto sono questo, come deve stare? Il Cpr è come se fosse un carcere – conclude l’avvocato Calantropo – piaccia o non piaccia, ha le sbarre, puoi entrare solo autorizzato, non puoi uscire, non è libero. Non ci possiamo nemmeno riposare cinque minuti, questo è il problema. C’è un accanimento nei confronti di questo ragazzo, è incredibile».

Dopo una conferenza stampa a cui hanno partecipato i media internazionali, condita dalle parole entusiaste dell’allora ministro dell’Interno, dopo tre lunghi e dispendiosi anni di processo, è in fondo comprensibile che realizzare udienza dopo udienza di aver commesso – e reiterato – un errore, sia per la procura cosa ormai assai dura. Ma sembra che anche in un epilogo tutto sommato favorevole a pagare sia ancora una volta l’unica persona che ha pagato più di tutti, quella che negli ultimi tre anni ha scontato sulla propria pelle lo scotto di un maldestro scambio di persona. Nessuno ha chiesto scusa a quest’uomo per quello che gli è stato erroneamente attribuito, per il nome con cui è stato ossessivamente chiamato per tre anni, nessuno, a cominciare da quella stessa Nca che per prima ha condotto le autorità sudanesi in quel caffè dove stava seduto Behre. Mentre aumentano le adesioni alla campagna lanciata da LasciateCIEntrare, che sulla vicenda ha scritto nero su bianco un appello che non ha risparmiato colpi durissimi: «La prefettura e la questura di Palermo sono quindi pronte a predisporre misure di allontanamento forzato dal territorio dello Stato, pur di eliminare le tracce di un così grave errore giudiziario? – scrivono, sollevando dei dubbi sulle tempistiche e la scelta del provvedimento, a poche ore dai festeggiamenti per la (non) ritrovata libertà -. Chiediamo l’immediata liberazione di Medhanie Tesfamariam Behre. Medhanie è innocente».


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