ProntoBus Sicilia, il turismo gestito dai boss in carcere? La tour operator: «Dove c’è un giro di soldi c’è la mafia»

Tour della città con bus scoperti, da cui ammirare le meraviglie di Palermo, dalle piazze ai teatri. Diverse fermate per tutto il giorno e audio guida digitale in sei lingue. È tutto questo ProntoBus Sicilia o, almeno, è quello che è stata fino a pochi giorni fa. A campeggiare adesso sulla vetrina della sede operativa di corso Vittorio Emanuele sono i sigilli posti dagli inquirenti in seguito al blitz Atena. L’azienda, monitorata per lungo tempo, sarebbe stata «costituita e sviluppata mediante ingenti somme di denaro versate nella società da esponenti mafiosi», recitano adesso le carte. Registrata alla Camera di commercio di Palermo il 23 gennaio 2017, ma avviata del tutto solo due mesi dopo, si occupava di prelevare i croceristi appena sbarcati al porto di Palermo e di portarli in giro per la città. La sua sede legale, in via Stefano Turr, è stata a sua volta posta sotto sequestro dai militari. Anche se i contatti telefonici sembrano ancora attivi. Ma strappare all’azienda una replica risulta, ad oggi, difficile. «Abbiamo precise direttive, non possiamo dire niente, nessun commento da parte nostra», risponde una voce femminile al telefono.

«Situazioni societarie occulte», quelle scoperte dagli inquirenti, che sarebbero state gestite da Sebastiano Vinciguerra, alias Guerra o anche Guerra e pace, giocando sul suo cognome, altre volte indicato solo come Zenith nelle conversazioni intercettate. Lui è il socio effettivo, condannato per 416 bis in seguito all’operazione Addiopizzo 1 del gennaio 2008, con la quale emergeva il suo legame coi boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, e attualmente detenuto (dal dicembre 2017) perché coinvolto in un’altra recente operazione antimafia, denominata Game Over. Ma la ProntoBus Sicilia srl non è intestata solo a lui. Al suo fianco ci sarebbero stati altri soci di tutto rispetto: il cugino Tommaso Lo Presti, arrestato nel 2014 col blitz Iago; i fratelli Di Giovanni, Gregorio e Tommaso, anche loro in carcere tramite il 416 bis con l’accusa di aver retto il mandamento mafioso di Porta Nuova; e Paolo Calcagno, in carcere anche lui dal 2015 dopo il blitz Panta Rei. Tra gli intestatari figura anche Gioacchino Cirivello, cognato di Vinciguerra, incensurato e quindi figura ideale da far comparire per ovviare all’applicazione delle misure di prevenzione.

Tutti avrebbero versato dei contributi nella società. Cinquemila euro a testa, a giudicare dalla dazione richiesta da Vinciguerra ai soci, accompagnata dalla motivazione che l’attività fosse in perdita ma prospettando consistenti profitti nel giro di due o tre anni. Quote che, da quanto emerso dalle indagini, sarebbero state saldate subito dai Di Giovanni, ma non da Calcagno e da Lo Presti, che in questo modo sarebbero rimasti esclusi dai guadagni futuri. Circostanza che in particolare Calcagno non manda giù e di cui discute in carcere a colloquio con la moglie e col fratello di lei, successivamente assunto a sua volta come autista nella ProntoBus e utilizzato dal cognato detenuto «per rapportare alcune vicende che riguardano il mandamento mafioso di Porta Nuova agli esponenti apicali dello stesso, quali Sorriso (l’alias di Gregorio Di Giovanni), Ghiaccio (cioè Cosimo Vernengo) e quello dei pullman (vale a dire Vinciguerra)».

Calcagno inoltre, inconsapevole di essere intercettato durante i colloqui in carcere, allude più volte al fatto di aver già investito nella nascente società ben 15mila euro, motivo per cui Vinciguerra avrebbe dovuto defalcare da questa somma i cinquemila euro necessari per riavviare, in modo deciso, l’attività imprenditoriale in questione. A cercare di sistemare le cose ci avrebbe pensato sua moglie, chiedendo l’intercessione dei Di Giovanni. Sono proprio loro che avrebbe permesso, tra le altre cose, al cognato di Calcagno di conseguire la patente D per poter essere assunto come autista della ProntoBus Sicilia. Avrebbe lavorato inizialmente solo «due giorni alla settimana con uno stipendio di 400 euro mensili, per poi passare, sempre grazie all’intervento qualificato mafioso, a cinque giorni lavorativi settimanali per mille euro mensili». Tommaso Di Giovanni avrebbe perorato senza remore la causa avanzata da Calcagno: perché aggiungere una quota di cinquemila euro, lui o per tramite del cognato neoassunto, a fronte dei quindicimila già approntati e del suo stato detentivo? Stato che, secondo la mentalità mafiosa, va anzi sostenuto dai sodali rimasti in circolazione, con dazioni di denaro alla famiglia del detenuto.

In seno alla ProntoBus, insomma, sembrano esserci sin da subito alcuni malumori. E a doverli districare sarebbe dovuto essere uno dei padrini più influenti di Cosa nostra palermitana. Mentre l’azienda, intanto, si accaparra sprovveduti clienti, fermati appena scesi dalle crociere. Già all’interno del porto, infatti, c’era ad attenderli un banchetto informativo della ProntoBus e un altro identico anche sotto ai portici di via Crispi. E nella zona l’azienda era nota anche fra i colleghi dell’ambiente e i tour operator concorrenti. Che, però, non sono rimasti affatto stupiti del presunto interesse dei boss per il settore del turismo palermitano, anzi. «Dove c’è giro di soldi, c’è la mafia purtroppo. Probabilmente hanno fiutato il business e hanno agito» è il commento di Adriana Spataro, che lavora all’Infopoint Palermo e collabora invece con Open Artour e il City Sightseeing. «Il turismo a Palermo sta crescendo ed è normale che la mafia abbia fiutato qualcosa, perché la mafia guarda dove si fanno i soldi – ribadisce -. E poi il business dietro a questi autobus è veramente grande, se si considera che prelevano direttamente i croceristi attraccati al porto, e quelli ci sono anche durante l’inverno, un periodo generalmente morto a Palermo, tranne che per bus di questo genere che invece continuano a lavorare, visto che di base almeno due volte a settimana si ferma una crociera». Un circuito che quindi lavora sempre, dodici mesi su dodici, risultato piuttosto ghiotto agli occhi della criminalità organizzata.

                 

La notizia, quindi, non sembra affatto stupirla. «Non ho mai collaborato con loro, ma ricordo di non aver mai visto aperta la sede di corso Vittorio Emanuele, era forse una copertura? – si chiede adesso Spataro -. Ripeto, il settore è in crescita e girano parecchi soldi. E poi c’è da dire che ultimamente ci sono stati continui blitz, continui arresti. Ballarò, per esempio, nota piazza di spaccio della mafia, è sempre monitorata, questo mi fa pensare che abbiano dovuto per forza spostarsi su altro, in un settore in cui magari ancora non si va a guardare» è la riflessione dell’operatrice turistica. Cui accompagna un auspicio: «Spero che non vengano a rovinare quello che in generale si sta costruendo col turismo, se cominciano a capire che qua si possono fare i soldi potrebbero mettere i bastoni fra le ruote a tante attività oneste». 


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