Gli intrecci fra mafia e politica nei racconti di Brusca «Berlusconi avrebbe dovuto aiutare Cosa nostra»

Non ci sono solo i dettagli del rapporto con Totò Riina, le stragi, gli omicidi e le vendette nei racconti che il pentito Giovanni Brusca fa davanti ai giudici nisseni, in trasferta a Roma per ascoltarlo. Il suo esame, in occasione del processo per calunnia aggravata a carico dei poliziotti Michele Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tocca in più passaggi infatti anche gli intrecci dell’epoca fra mafia e politica. E, tra un ricordo e l’altro sollecitato dal pubblico ministero, tira fuori nomi di un certo peso. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, ci furono soggetti che si proposero a Riina per ereditare o comunque incamerare i voti che Cosa nostra assicurava a Lima e alla sua corrente. «La Lega di Bossi, Dell’Utri, Ciancimino, da quello che diceva Riina queste persone si erano proposte a lui – nomi che Brusca ha fatto anche durante il Borsellino quater -. Non conoscevo all’epoca tutti i canali di Riina, oggi ho un quadro molto diverso. Dalla mia interpretazione si sono proposti in maniera slegata». Ma Riina non sembra interessato, all’inizio, alle proposte ricevute. «Secondo me non trovava la stessa solidità trovata in precedenza con i cugini Salvo e con la corrente andreottiana. Penso non avessero dato un minimo di prova e di garanzia», ipotizza il pentito. Fino a prima di quel momento, Brusca non aveva mai sentito parlare prima di Dell’Utri.

Ma non lo sentirà solo nei racconti di Riina. Anche suo cugino Ignazio Pullarà, uomo d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, lo tirerà in ballo davanti a lui. «Mi raccontò che Giovannello Greco, della famiglia di Ciaculli, aveva fatto irruzione a casa di Antonino Cinà, che finirà imputato con Dell’Utri, minacciando che avrebbe ucciso lui e tutta la sua famiglia se non gli avesse fatto recuperare i soldi investiti con la Fininvest di Dell’Utri e di Berlusconi. Allora si parlava di circa 800milioni di lire, che gli ha fatto avere». Siamo a cavallo tra l’87 e l’88 quando Pullarà racconta questo episodio al cugino, collocandolo in periodo temporale precedente. «Non ne parlava come fosse una novità, ho pensato che era una cosa che si sapeva». È sempre questo cugino che gli avrebbe raccontato un’altra circostanza molto precisa. «Mi disse che era stato lui a fargli mettere a Berlusconi la bomba dietro il cancello per farlo tornare a pagare il pizzo, perché c’è stato un momento che non lo pagava più – dice il collaboratore -. Stefano Bontate era il referente di Berlusconi, dopo il suo omicidio questo patto si era interrotto, la messa a posto come si dice in gergo. Per fare tornare Berlusconi a pagare il pizzo nello stile tipicamente mafioso è stato fatto un segnale, una bomba, un attentato dinamitardo dietro il cancello. So che il tentativo andò a buon fine, questi soldi furono forse uno dei motivi della sostituzione del mandamento, Riina li divideva a tutti i mandamenti».

Nomi, quelli di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, che Brusca però non tira subito fuori appena deciso di collaborare coi magistrati. Lo fa per la prima volta nel 2010: «All’inizio la mia collaborazione è stata un po’ difficile – spiega ai giudici -. Volevo collaborare ma non ce la facevo totalmente, mi veniva difficile andare ad accusare Totò Riina, certe cose me le sono trattenute, non le ho dette per evitare storie, polemiche». Insieme ai loro nomi, ci sono anche quelli di Giulio Andreotti, che all’epoca Riina avrebbe cercato di «azzoppare politicamente» e quello di Calogero Mancino che, a sentire lui, sarebbe scampato a un attentato. «Riina mi aveva dato l’incarico di uccidere con autobomba l’onorevole Mannino, subito dopo Capaci, una settimana-dieci giorni dopo. Poi mi arrivò la revoca da Salvatore Biondino – spiega -. Io mi ero già organizzato col telecomando, non più di modellismo, uno per i cancelli a distanza. Avevo anche pronto l’esplosivo, una parte veniva dalla cava, un’altra parte da Biondino, avevamo fatto già dei sopralluoghi, la sede della Democrazia cristiana frequentata dall’onorevole era vicino alla Camera di commercio, stavamo iniziando a studiare le sua abitudini. Tutto questo è avvenuto fra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio». Ma non se ne fece più niente. Sfuma anche il piano per infliggere «un altro colpetto uccidendo un altro magistrato», Pietro Grasso: «Sapevamo che frequentava la casa della suocera a Monreale, solo che all’atto di fare il sopralluogo Gioè mi disse che c’era il rischio che le antenne di una banca vicina creasse problemi col telecomando per avviare la bomba a distanza e che ce lo facessero esplodere in mano. Riina mi ha detto solo di fermami, non mi ha detto di trovare un altro obiettivo».

Dai racconti di Brusca esce fuori, puntuale, anche un altro nome noto, quello di Vittorio Mangano. «Prese la reggenza di Porta Nuova dopo Cancemi, mio padre mi aveva parlato bene di lui – rivela il pentito -. Mi capitò una volta di leggere su una rivista, L’Espresso, che aveva preso questo ruolo di stalliere presso Berlusconi, allora glielo chiesi e lui mi confermò tutto. E da lì, quando ho avuto necessità, lo mandammo da Berlusconi per andargli a dire di darci una mano per fare delle leggi a favore di Cosa nostra altrimenti avremmo continuato con le bombe come quelle del nord, perché la sinistra sapeva». Secondo la ricostruzione di Brusca, Mangano avrebbe avuto la possibilità di avere con l’ex premier un canale sia diretto che indiretto, attraverso una mediazione di Dell’Utri e di un amico che aveva un’agenzia di pulizie all’interno di Fininvest. «Il messaggio era di adoperarsi, appena assunto il ruolo politico, in favore di Cosa nostra, a cominciare dallo svuotamento del 41bis, capendo che non avrebbe potuto cancellarlo, per arrivare piano piano alla revisione del maxi processo. Altrimenti avremmo continuato con le bombe, come quelle di Milano e Firenze, e avremmo messo in difficoltà il suo governo. Mangano ha fatto uno-due viaggi sicuri, la risposta è che erano tutti contenti e a disposizione e che si sarebbero adoperati. Parlò all’inizio con Dell’Utri».

Il nome dell’ex premier ritorna anche in un colloquio nel ‘95 fra lui e il boss tuttora latitante Matteo Messina Denaro: «In quei pochi giorni trascorsi con lui a Dattilo parlammo di tutto. Anche di orologi, io li collezionavo, lui e Vincenzo Sinacori me ne avevano chiesto un in regalo…A un certo punto lui mi dice che Giuseppe Graviano in un incontro aveva visto al polso di Berlusca, come lo chiavano loro, un orologio di lusso di 500milioni di lire, un incontro a quattr’occhi, e io risposi “ma che è? Coi diamanti, i brillanti?” e finì lì. Non sono mai tornato su questo episodio perché nessuno mi ha mai detto nulla. Quando ho letto la sentenza sulla Trattativa e le dichiarazioni di Graviano, sono tornato coi magistrati su questo episodio. Per come me lo ha raccontato Messina Denaro, ho capito che Graviano quell’orologio lo aveva visto dal vivo, in un incontro a quattr’occhi con Berlusconi, non su una rivista insomma». 


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