Via d’Amelio, il pentito Brusca chiede scusa «Perdono ai familiari, allo Stato, alla società»

«Non sono imputato però ritengo di doverlo fare, quindi chiedo scusa e perdono ai familiari delle vittime, allo Stato e alla società civile, punto». Sono state queste le parole che hanno chiuso la testimonianza di Giovanni Brusca, dopo circa cinque ore di esame. Sentito a Roma in occasione del processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei accusati di calunnia aggravata, per la prima volta l’uomo che ha premuto il telecomando che ha fatto saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta ha chiesto scusa. In aula, a raccogliere le sue parole, insieme a magistrati e avvocati c’era anche Fiammetta Borsellino. In qualità di imputato in procedimento connesso, avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non parlare. Ma invece ha deciso rispondere a tutte le parti che con lui si sono confrontati. E il suo racconto parte da molto lontano, da quando fra il 1975 e il ’76 viene formalmente affiliato alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato col ruolo di soldato semplice. Il suo padrino di battesimo è Totò Riina. Di quel mandamento alla fine degli ’80 diventerà il reggente, fino al momento della sua cattura: «Tre giorni dopo il mio arresto ho deciso di collaborare, quindi in automatico quella veste è decaduta».

Prima di quel giorno, però, è uno dei collaboratori più fedeli di Riina. «Gli facevo da autista, da messaggero per tutta la Sicilia, ci andavo a casa, gli stavo molto vicino. Con lo scoppio della guerra di mafia l’ho portato a San Giuseppe Jato e fino al mio arresto dell’84, dovuto alle dichiarazioni di Buscetta, sono stato uno dei suoi più stretti collaboratori. Sono rientrato nel giro ristretto dalla fine dell’89, riprendendo da dove avevo lasciato, fino al 20 maggio ’96». C’è un periodo di raffreddamento a un certo punto tra i due. «Avevo saputo che Riina voleva farmi fuori perché mi riteneva responsabile di un presunto traffico di droga a sua insaputa e dell’omicidio di Agostino, il poliziotto, quello ucciso insieme alla moglie – racconta -. Mi fa un interrogatorio a 360 gradi pensando che io potevo essere coinvolto insieme ai Madonia, perché lui non sapeva nulla di queste circostanze, ma neanche io. Si puntò il dito su Nino Madonia e sui Galatolo, l’omicidio si è fatto a Villagrazia di Carini, quindi San Lorenzo, non è cosa nostra. Di lì a poco sono stato arrestato e un po’ la rabbia, un po’ come sono stato trattato…ho deciso di collaborare, se no non ci pensavo proprio. Sono diventato un mostro per vendere l’anima a Costa nostra, perché credevo in lui, e poi scopro che voleva farmi fuori…mi sono chiesto a cosa fosse servito fare tutto quello che avevo fatto per un uomo che io vedevo come fosse Dio in terra».

Un collaborazione un po’ difficile, ammette, «perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Volevo collaborare ma non ce la facevo all’inizio…andare ad accusare uno che fino al giorno prima…insomma, accusare Riina mi veniva difficilissimo, molte cose me lo sono trattenute all’inizio per evitare polemiche». Ci sono fatti e nomi, infatti, che Brusca fa solo pochi anni fa, come quelli di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, che tira fuori nel 2010. Poi si arriva alla stagione stragista, il papello, le vendette contro i nemici, gli attentati mancati. «Dopo pochi mesi dall’omicidio di Chinnici, quello di Falcone era già in programma», spiega il boss. Prima era toccato a Salvo Lima, reo di non essersi occupato del maxi processo: «Fino a prima di Buscetta tutto quello che accadeva avveniva in combutta con la politica, possiamo dire». È dal suo mancato aiuto che si inaugura, secondo un periodo di vendette, «chiudere col passato e iniziare una stagione nuova», quindi con nuovi appoggi politici, «e azzoppare, politicamente parlando, la corrente andreottiana in Sicilia – dice -. Gli appalti erano uno strumento per agganciare la politica. Avevamo anche tentato di corrompere giudici, magistrati, non trovavamo appigli». E poi, nel 2008-09, l’incontro con Rita Borsellino: «Una giornata memorabile per me, capivo lo sforzo morale, umano di questa persona per incontrarmi, cercava giustizia per il fratello – dice, esitando -. Dopo quell’incontro ero pronto per dire tutto quello che sapevo, per verità di giustizia. Ma volevo dire prima tutto a lei. Ma poi sono stato indagato per altre vicende, e ho capito che lei non sarebbe più venuta…quindi ho chiamato i magistrati e raccontai a loro tutti i fatti. Ma lo devo dire, Rita Borsellino era una grande donna, mi ha dato la spinta per chiudere definitivamente…io devo tutto a questa donna, per lei ho deciso di tirare fuori anche quelle poche circostanze che ancora dal ’96 non avevo rivelato per non sollevare polveroni».

«Ci voleva un altro colpetto per farli tornare a trattare», torna a dire poi, riferendosi agli agganci in politica. Continua a snocciolare, nomi, fatti, circostanze già raccontate anche durante i precedenti processi su via d’Amelio. Fino ad arrivare al 19 luglio 1992. «Scarantino parlava di conoscere me, ma io non lo avevo mai visto, mai conosciuto, mai fatto riunione di commissione per stabilire la strage del dottor Borsellino a Santa Maria di Gesù… ho pensato che forse era lui che aveva visto me, ma io non lo conoscevo – dice Brusca -. Tutte false le cose dette da Scarantino sul mio conto, io a un certo punto l’ho pure detto pubblicamente durante un aspro battibecco con la dottoressa Palma e il dottor Di Matteo che stavano processando delle persone sbagliate, avevo capito che volevano screditarmi ad ogni costo e allora non ho avuto timore di nessuno e l’ho detto». «A quanto pare era stato maltrattato, malmenato…erano discorsi che giravano, da Biondino a Di Trapani, giravano queste voci insomma – continua a raccontare, riferendosi ancora a Vincenzo Scarantino -. Aveva subito minacce da parte delle forze di polizia o in carcere, non lo so con certezza, si parlava di maltrattamenti. Mi ricordo che mi raccontarono che la polizia lo voleva buttare giù da un elicottero in volo, cercavano di intimorirlo, questo era il senso. Biondino mi diceva di seguire questo ragazzo sotto tutti gli aspetti, difensivo e psichiatrico, ci chiedevamo perché non mettevano in sua difesa avvocati buoni; Biondino mi chiedeva di smontare le accuse contro questo ragazzo, perché era innocente».

E La Barbera? «Lo conosco perché mi ha arrestato il 20 maggio ’96 – dice subito -. Mi ricordo che fu oggetto di una trattazione durante una riunione ristretta della Commissione per un omicidio che aveva commesso dentro a una sala bar, aveva ucciso un ragazzo, si parlò di eliminarlo per vendicare quell’omicidio». Lo stesso delitto di cui lunedì, davanti agli stessi giudici nisseni in trasferta a Roma, ha riferito il collaboratore Vito Galatolo


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