Sepiatone in tour con ‘Darksummer’

Da dove nasce il nome “Sepiatone” e com’è nata la vostra collaborazione?

Hugo: Abbiamo cercato il nome giusto per il nostro progetto nel ’98 e invece di prendere brani realizzati come canzoni classiche o roba in vinile sperimentale, abbiamo ripreso qualcosa di molto cinematografico degli anni Cinquanta-Sessanta.

Marta: Volevamo dare la suggestione di qualcosa nata come i primi film colorizzati con la tecnica del sepiatone e abbiamo provato con vari “crome” come ad esempio “ektachrome”. Poi alla fine siamo approdati al semplice “sepiatone”.

 

“Darksummer” del 2005, è un disco dalle sonorità trip-hop. Riconoscete la vicinanza tra il vostro disco e il movimento di Bristol?

H: Si ma senza la batteria ovvia del genere trip hop. È un po’ più sperimentale, ci sono delle cose in comune però alla fine è più nella direzione “ambiente”.

M: E’ una miscela in cui c’è la rock ballads tradizionale…

H: …si ma quando dici rockballads non è roba anni 80! Si tratta di qualcosa più degli anni 50-60, e Sepiatone è proprio l’indicazione di questo “retrofilm” che facciamo.

 

Com’è nato il progetto “Songs with other Strangers” assieme a Cesare Basile e John Parish?

M: E’ nato allo Zo perchè è raro incontrarsi tutti insieme nello stesso periodo specialmente in Sicilia. Varie volte però avevamo collaborato in alcuni progetti discografici e in studio. Quella primavera c’era in programma una “discesa” da Milano di Cesare, quella di John da Bristol, Hugo era lì, e per vari motivi, un po’ per vacanza un po’ perché stavamo registrando “Pretty and unsafe” – il mio disco con John -, abbiamo deciso di fare un progetto tutti insieme con un concerto. Il nome è stato scelto da me e Massimo Blandini, l’allora promoter di Zo. Cantiamo e interpretiamo le canzoni l’uno dell’altro, siamo un po’ “stranieri” l’uno all’altro perché anche se eravamo amici, i nostri incontri erano sempre dilatati nel tempo. E così è nata questa frase: “Songs with other Strangers”, che resta comunque un progetto aperto a diversi cantautori e che quindi potrebbe ripetersi tra qualche mese con qualcun altro.

 

Marta, in meno di dieci anni sei cresciuta professionalmente a livello internazionale. Cosa ti manca di quegli anni in cui stavi appena incominciando a muovere i primi passi verso la musica partendo da una terra “difficile” come la nostra?

Se rifletto sui primissimi anni catanesi penso a quando ho iniziato con Cesare Basile, con cui tutt’oggi collaboro. La sala prova dove proviamo è la stessa! Quello che mi manca è Catania di quegli anni, perché negli ultimi anni i locali dove si faceva musica hanno chiuso, è molto più difficile radunarsi e forse anche il pubblico ha cambiato abitudini.

 

Quindi secondo te ci sono stati dei cambiamenti in negativo nella scena musicale catanese dalla scomparsa di Francesco Virlinzi ad oggi?

Si, ma non so se è legato tanto a Francesco che ho conosciuto personalmente e con cui ho lavorato insieme quando ho fatto la grafica per un periodo a Carmen Consoli. Francesco è stato bravo mettendo in luce dei talenti e aiutandoli anche a lavorare fuori da Catania, ma lui era più un ponte tra Catania e il resto dell’Italia e l’estero. A me invece manca quello che nasceva a livello molto più “selvatico”, cioè meno organizzato. Era più semplice fare concerti anche in piccoli locali e c’era sempre un pubblico abbastanza numeroso, mentre adesso a quanto pare è più difficile forse perché si sono stabiliti nuovi modi di fruire la musica e il live è un po’ penalizzato. Un po’ in tutta Italia, ma io a Catania lo sento particolarmente.

 

Parlaci un po’ del tuo prossimo lavoro da solista “Pretty and unsafe” che uscirà il prossimo 5 febbraio…

Il lavoro è nato sempre nella sala prove di Cesare e poi nello studio The Cave a Catania dove lavora Daniele Grasso, un sound engineer che mi ha invitato a registrare lì. Sono nate delle tracce abbastanza immediate, è stata una bella esperienza. Hanno suonato con me Cesare, Hugo, John ed il violoncellista Enrico Sorbello.

 

Hugo, come mai la decisione di stabilirti in Europa e di affidarti a una label come la Glitterhouse Records di Berlino? Cosa ti ha spinto a lasciare l’Australia?

Sono stato sempre affascinato dall’Europa sin da bambino. E’ successo che dovevo andare a scuola in Francia quando avevo 14 anni e in quel periodo sono scappato da casa, dalla mia famiglia e sono andato un po’ in giro in Francia e Belgio. Ho scoperto il gusto di ritrovarmi in altre realtà, dove la gente non parla inglese e dove le cose quotidiane sono diverse. La mia famiglia è stata in giro quando ero bambino e per questo motivo gli spostamenti sono abbastanza normali per me. Dopo cinque anni sono andato in Inghilterra per lavorare con Nick Cave e i Bad Seeds e sono stato lì e a Berlino. Poi sono tornato in Australia dove avevo un gruppo kult-rock underground, abbiamo avuto un certo successo raggiungendo un livello oltre il quale non si può andare perché l’Australia alla fine è un paese abbastanza piccolo con una popolazione limitata. Spesso gli artisti dell’underground australiano non vivono più in Australia, è normale, io sono un po’ un membro di questa “famiglia” di ex australiani che vanno spesso in Inghilterra ed in particolare in un quartiere di Londra dove c’è una grossa colonia di artisti australiani.

 

A proposito di Nick Cave e i Bad Seeds, com’erano i tuoi rapporti con loro?

Buoni e ancora lo sono. E’ una famiglia di persone che sono cresciute in circostanze molto difficili in Australia e che hanno trovato una vita fuori in altri paesi, per cui c’è solidarietà tra di noi. Tra questi c’è anche Mick Harvey, vecchio collaboratore di Nick Cave, che ha prodotto “Darksummer”, nel senso che era presente per il mix del disco in Italia.

 

Pensando invece alla tua carriera post-Bad Seeds, c’è un album tra i tuoi dodici a cui sei maggiormente legato?

Il mio disco più personale è “Last frontier” del ‘99. C’è un pezzo che si intitola “Lost” che è il primo pezzo che Marta e io abbiamo cantato, proprio nell’anno in cui ci siamo incontrati. Ma più che questo, quello è stato un periodo molto intenso in cui alcune persone dei True Spirit sono passate, per così dire, nell’altro mondo…

 

Da anni siete sempre in viaggio, avete fatto concerti veramente in tantissime nazioni. Sarebbe errato definirvi due “spiriti liberi” o forse è questa la ragione che vi lega di più?

M: Sicuramente Hugo è molto più spirito libero di me! Io lo sono pure, ma c’è qualcosa che mi ancòra di più ai posti e agli affetti in maniera proprio fisica, per cui ho bisogno di stare ferma in un posto, mentre lui è più abituato a muoversi. Quello che ci lega, a parte la creatività che condividiamo, è anche una certa tolleranza rispetto alla nostra individualità, per cui ci siamo capiti subito, altrimenti non saremmo riusciti a collaborare per così tanto tempo.

H: Per me la musica, la mia professione, e la mia vita sono la stessa cosa. Per fare musica devi accettare tanti compromessi personali e devi rinunciare a tante cose che sono normali. Ho fatto questo per più di venti anni ed è stato molto divertente.

 

Quanto è difficile per voi entrare e varcare le soglie del “mercato” occidentale, oggi ormai con una tendenza quasi esclusivamente commerciale?

H: Siamo in un momento in cui un po’ tutto il sistema è in tilt o forse sta cambiando. Lo sfruttamento della musica on line è una cosa che tutti provano a capire perché non è chiara… questo è un problema che coinvolge anche i giovani artisti. Con internet, con la tecnologia digitale, la gente si diverte anche a casa. Questo ha cambiato l’atteggiamento delle persone verso i concerti dal vivo. C’è il pericolo che la società nostra diventa un circuito in cui non si lasceranno mai la tranquillità, la mania della connessione ad internet…

M: Le case discografiche si stanno ormai interessando a questo perché i ragazzi scaricano musica da internet piuttosto che copiarla da CD e metterla sul lettore MP3. Ormai la facilità con cui fai certe operazioni condiziona il modo di fruire e di fare musica e allora le etichette stanno iniziando a valutare e a fare ricerche su come vendere. Gli artisti infatti si chiedono “facciamo un disco oppure no?” ed è difficile perché le etichette ti rispondono spesso che poi il tuo disco dopo una settimana è già online.

 

 

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