«Se il Watergate fosse scoppiato in Italia, Nixon sarebbe ancora presidente»

«Compito del giornalista non è cambiare la realtà, sarebbe molto pericoloso. I cambiamenti devono provenire dal pubblico». Questo è uno dei messaggi principali scaturiti dall’incontro, organizzato dai Circuiti Culturali dell’Ateneo e dalla fondazione Fava, tra il giornalista dell’Espresso Fabrizio Gatti e i rappresentanti delle testate studentesche. L’autore di inchieste importanti – come quelle sui cpt di Lampedusa e Milano – ha risposto ai numerosi studenti e spettatori. Unimagazine, Girodivite, Il Cibicida, Soqquadro, Step1 e Radio Zammù per quasi due ore hanno fatto domande su rapporti tra politica e giornalismo, immigrati ed esperienze personali sotto la moderazione di Enrico Escher, giornalista e docente di Comunicazione, Tv e new media. 

Il giornalista milanese, a Catania per ricevere il premio intitolato a Giuseppe Fava per la sua inchiesta sui braccianti sfruttati in Puglia, si dichiara commosso e racconta di come alla notizia dell’assassinio del direttore de “I Siciliani” i compagni di liceo gli avessero detto: «ecco come si finisce a fare il giornalista: o sei un venduto o ti ammazzano». Poi aggiunge: «questo è il rapporto tremendo che il nord ha nei confronti della mafia, perché ha considerato la mafia come un problema regionale, non come un problema di libertà di tutti noi in tutta Italia».

L’argomento di partenza è ovviamente l’inchiesta pubblicata giovedì sul policlinico Umberto I di Roma e a proposito Gatti non si aspetta cambiamenti nella gestione dell’ospedale. «I precedenti non sono molto confortanti. Se penso all’esperienza a Lampedusa è sparito solo il filo spinato e il periodo di detenzione è più breve. Il risultato migliore di quel lavoro è stato l’introduzione nel meccanismo di sorveglianza di figure esterne come un rappresentante dell’organizzazione internazionale dell’immigrazione e un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati». In Puglia è avvenuta la modifica dei tempi di registrazione dei dipendenti che dovrebbe tutelare i lavoratori tramite la loro regolarizzazione immediata. Tuttavia «il Governo italiano doveva intervenire immediatamente con un decreto e in realtà non l’ha fatto. Nel frattempo mi risulta che a Rosarno in queste settimane la situazione sia disastrosa con lo sfruttamento attraverso il caporalato».

A chi chiede se il genere giornalistico dell’inchiesta sia oramai agonizzante, Gatti risponde che ad essere «agonizzante è il Paese e il pubblico. Penso che se l’inchiesta sul Watergate fosse stata fatta in Italia, Nixon sarebbe ancora il nostro presidente». Le inchieste non sono poche, «solo che poi cadono nel vuoto; in televisione sono quasi sparite. In tv non siamo nemmeno in grado di avere la certezza della cronaca». Poi aggiunge che «tutto questo fa parte della democrazia; non è un dono ma una conquista quotidiana che dobbiamo difendere. Noi giornalisti rappresentiamo solo un aspetto della società, poi anche il pubblico deve esercitare la sua parte in modo informato».

A proposito degli interventi politici promessi per risolvere la questione dell’immigrazione clandestina Gatti spiega come, nonostante la responsabilità di leggi come la Turco-Napolitano o la Bossi-Fini, «non è una questione politica ma una lenta regressione e perdita dei diritti dei cittadini. Questa perdita comincia con gli stranieri e finisce con tutti noi». A proposito del rapporto tra la paura e il mestiere di “infiltrato” che molte volte svolge, il giornalista milanese ammette che «in qualche caso la paura mi ha portato a fermarmi», come durante un viaggio nel deserto verso il Niger dopo l’incontro con un gruppo di combattenti salafiti nella prima base di Al-Qaeda nel Sahara, «ma probabilmente sarei morto se l’avessi documentato». Ha preferito fermarsi «perché ritengo che compito del giornalista non è fare atti eroici; spesso diventa eroico tenere la schiena dritta e compito del giornalista è tenere la schiena dritta».

Sul rapporto tra indipendenza dell’informazione e potere, Gatti fa una considerazione: «Se mi butto un mese nei sottoscala di un ospedale è perché ritengo che ci sia bisogno di raccontare questa realtà, e se esiste tale realtà è perché sicuramente le cose non vanno bene. Il potere sta riducendo i diritti dei cittadini per arroccarsi e dividersi le ricchezze scendendo a patti con tutti. La storia italiana ha concentrato gruppi di interesse anche sui giornali ed è chiaro che diventa difficile fare un’inchiesta contro il proprio editore», portando ad esempio il caso del Corriere della Sera che difficilmente svolgerebbe un’inchiesta sui fondi Telecom dato che fa parte del suo gruppo di azionisti. «Sono i giornalisti che devono essere liberi. Se ci sono più gruppi editoriali la libertà è comunque rispettata», poi cita un detto di Leo Longanesi «”In Italia la libertà non manca, mancano gli uomini liberi”. E in effetti la situazione è questa». 

A proposito dei compagni di viaggio incontrati nel corso delle sue inchieste (che definisce come «un’esperienza personale straordinaria»), Gatti descrive la loro spinta nell’affrontare il viaggio nel deserto come un atto di eroismo dei nostri tempi. «L’impressione più forte è stata la Puglia. Vedere che nel tuo Paese c’è un ritorno della schiavitù con persone che vengono bruciate se tentano di scappare… mi sono chiesto se volevo vivere in un posto così. Ho provato la voglia di scappare senza sapere dove andare. Questa è stata una reazione pericolosa, perché c’è il rischio di arrendersi».

Il desiderio di dare una scossa all’opinione pubblica e la voglia di raccontare i fatti con nomi e cognomi (senza ricorrere agli stereotipi sull’immigrazione) è stata la molla che ha spinto il giornalista a occuparsi di temi come il caporalato, il trattamento dei clandestini e i cpt. Proprio a proposito dei centri di permanenza temporanei, una soluzione proposta è quella di dare trasparenza ai meccanismi che regolano queste strutture. «Da cittadini dovremmo chiederci se possiamo tollerare questo aspetto», riferendosi alle condizioni estreme in cui versano le persone rinchiuse all’interno.

L’incontro si conclude con il racconto della storia di Pavel, un lavoratore nei campi pugliesi di origine rumena, vittima di una serie di violenze da lui denunciate ma rimaste impunite ed espulso dal Paese poiché non aveva un permesso di soggiorno. A tal proposito Gatti si chiede se «il trattamento di Pavel rispetti i diritti umani? Io non credo» e conclude con una promessa: «fino a che  verrò a conoscenza di storie del genere le racconterò».


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