Attaccabrighe, schiamazzatori e bastardi: ecco a voi gli ‘Orphans’ di Tom Waits

Tom Waits
Orphans
(2006)
Anti

Proprio non ci si riesce a resistere all’impressionate magnetismo di Tom Waits. E’ proprio impossibile non essere attirati come una calamita verso qualsiasi sua nuova prova (musicale o cinematografica che sia). Sì, è più forte di qualsiasi altra cosa la curiosità di sapere ogni volta cos’ha in serbo quel diavolaccio che, a cinquantasette anni suonati, sembra come se il peso del tempo, invece di mandarlo al tappeto, lo rafforzasse a mò di scorza protettiva. E non fa certo eccezione un’opera come Orphans che di elementi di interesse, tra l’altro, ne ha a bizzeffe, data la sua ambiziosa dimensione e la sua smisurata consistenza concettuale.

Il ritorno di Waits infatti è di quelli che non può far altro che spiazzare recensori, fan, cultori, ma anche ascoltatori più distratti: un triplo cd dal totale di cinquantaquattro canzoni (trenta inedite e ventiquattro tra reincisioni e rarità) per oltre tre ore di musica, a cui allegato ci sta un artwork di novantaquattro splendide pagine. Tre dischi in uno per parlare del Waits del nuovo millennio, anzi di più, tre dischi che servono proprio a traghettare, nella nuova epoca, quella densa sostanza musicale waitsiana, sempre a cavallo tra il blues più bisbetico, le ballate zuccherose, il jazzaccio arrabbiato ed il minimale senso pianistico, manuale per ogni nuova generazione di musicisti. Ma è un aspetto che sottolineiamo noi che abbiamo la passione per questo genere di riferimenti perché lungi da Waits, storicamente, fare della didascalica coi suoi dischi. Costruire musica, per il cantautore californiano è, innanzi tutto, esorcismo dei dolori della vita, alla ricerca di un individuale benessere prima spirituale e poi, come fosse whisky che s’insinua nel sangue, esclusivamente fisico.

E questo “Orphans” non fa eccezione. La voce roca di Waits, impastata di Daniel’s e sigarette, infatti, è il solito inno al volto più bello che ha la tristezza: quel languore che rende nudo ed autentico un uomo davanti alla vita. Ma “Orphans” è molto di più perché rappresenta perfettamente il tripudio del mito musicale waitsiano dove, ripartite nei tre capitoli Brawlers (“attaccabrighe”), Bawlers (“schiamazzatori”) e Bastards (beh, fate voi), si riconoscono tutte, ma proprio tutte le pagine della sua carriera decennale. Blues arrugginiti, ballatone romantiche guidate da un toccante pianoforte, sperimentazione sgraziata, marcette, musica per teatro e molto, molto altro. Il tutto distillato con la solita forza espressiva dal sapore di tabacco e barbour, magari alla luce opaca di qualche locale fumoso, magari tra i volti ammaccati della Los Angeles notturna. Gli “orfani” di Tom Waits sono quei vagabondi che hanno il coraggio di vivere le proprie solitudini metropolitane, quei “bastardi” abbandonati dalla vita e lasciati al proprio cammino. Poeti disgraziati e squattrinati. Ma gli “orfani” di Tom Waits sono anche i suoi brani che, una volta incisi, perdono natali e radici e diventano di tutti.


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