La mitica follia di Pirandello

L’opera pirandelliana come specchio di un epoca: il 900, secolo dell’incertezza, dell’angoscia esistenziale, della scissione dell’Io. Un tempo in cui l’analisi delle mille sfaccettature della realtà può solo sfociare nella follìa. Verità. Come giudicare quale sia il vero senza ricadere nella questione dell’arbitrarietà del giudizio umano? Ecco la problematica sollevata dalla filosofa Angela Ales Bello: la concezione relativistica della realtà. La soluzione alternativa che il grande poeta siciliano offre di fronte a un mondo in cui ormai sono soppresse la spontaneità e l’imprevedibilità dell’uomo (presupposti fondamentali per la realizzazione dell’essere umano in quanto tale) è quella dello straniamento.

“La verità si inventa e quindi è necessaria la creazione di un ‘mondo-altro’ utopico e allo stesso tempo dinamico” sostiene la filosofa. Ma c’è molto di più in quella che viene comunemente definita follìa: lo sdoppiamento ontologico che Pirandello propone per sfuggire all’autentica pazzia si basa fondamentalmente  sull’abbandono della propria corporeità, intesa come vincolo e oppressione per l’anima. Questo il nodo tematico attorno al quale si intrecciano le mitiche storie Uno, nessuno, centomila, Il fu Mattia Pascal e I giganti della montagna. Ma la lettura filosofica di Pirandello non si limita solo alle reminiscenze platoniche, entra invece nel vivo dell’immortale pensiero di Nietzsche: ne riprende l’impeto dell’intenzionalità esistenziale e la tra svalutazione dei valori, e soprattutto, si basa essenzialmente sulla concezione psichica a cui dà vita l’ultimo Freud nella sua Metapsicologia. Pirandello riprende infatti la freudiana tripartizione della psiche umana applicandola ai suoi personaggi e quasi caricaturizzandoli in preda alla loro Nevrosi.

“La possibilità dell’impossibile”: è questa la follia che porta i protagonisti della scrittura pirandelliana a crearsi una propria ‘metarealtà’, ad autoconvincersi di una personalissima falsità profondamente vera. Questa la grandezza dello scrittore siciliano esaltata dalla psicoterapeuta Margherita Spagnolo – direttrice dell’istituto di Gestalt H.C.C. – che ha colto nella poetica umoristica il profondo dramma esistenziale celato sotto le maschere ben fatte di chi si impone di rientrare negli schemi prefissati dalla norma sociale a discapito dei propri bisogni individuali.

La prospettiva antropologica necessaria per comprendere il mito di Pirandello è la consapevolezza di un personaggio che ormai incarna l’Antieroe. L’unica reazione possibile al positivismo novecentesco dilagante, al tentativo di una totale razionalizzazione fenomenologia della dimensione empirica – ricorda il teologo Roberto Vignolo – è la riscoperta del “candore”. “Il sentimento del contrario” che sta alla base dell’ umorismo pirandelliano, che rifiuta l’ipocrisia, che è l’unica forza per affrontare la ‘pena di vivere’ ; non è nichilismo, non è naiveté, è la capacità di lasciarsi ancora stupire anche dopo aver sperimentato il disincanto.

Molti altri i temi sviluppati dagli studiosi in sala, appassionati alla vita di un uomo che si è totalmente dedicato al ‘canto delle vicende umane’  pur non offrendo alcuna risposta ai tanti interrogativi posti dalle sue opere, ponendo anzi l’accento sull’ enigmaticità della vita umana e trasponendolo per intero nei suoi scritti. Il fatto stesso che l’ultimo capolavoro di Pirandello sia rimasto incompiuto è emblematico: d’altra parte, come il grande scrittore sostiene, “La vita non conclude”.


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