Le mete dell’estate: a Berlino!

Berlino è una città della seconda guerra mondiale. Lo è ancora oggi, nel 2006, quando quella guerra è finita da sessant’anni. Lo è soprattutto oggi.
Lo straordinario laboratorio architettonico a cielo aperto in cui la caduta del muro ha trasformato la ritrovata capitale della Germania riunificata sarebbe, infatti, impensabile se un infinito dopoguerra non avesse congelato per quarant’anni Berlino nel suo stato di città di macerie.

Oggi Berlino si risveglia da mezzo secolo di sonno criogenico della storia e risorge svettando con lo slancio di avveniristiche torri di ferro, cemento e vetri policromi. Ma se l’assurdità della politica non avesse arenato il suo destino per quattro interi decenni in un’ansa del tempo, ciò a cui oggi assiste il visitatore attonito sarebbe addirittura inimmaginabile.

La mirabolante opera di ricostruzione ­ in parte già avvenuta, in parte maggiore ancora in corso ­ è la conseguenza diretta di un’opera di distruzione non meno esorbitante. È uno sproposito che si aggiunge a uno sproposito. Quarantacinque anni di conservazione ostinata della devastazione bellica e poi quindici anni di frenetica cancellazione di una tragica memoria durata troppo a lungo nella sua forma più inobliabile, la forma materica.

Una lunga, lentissima, quasi immobile cristallizzazione, un letargo di fango, e poi, d’un tratto, un risveglio di cristallo nelle superfici a specchio dei palazzi di Potsdamer Platz. Forse tra qualche anno la palingenesi sarà completa e ogni traccia dello stato larvale in cui la città ha dormito per mezzo secolo cancellata, ma oggi, se solo si esce dallo scintillante quartiere Daimler Chrysler, le cicatrici sono ancora quasi tutte lì, a fare della visita a Berlino un’autentica esperienza cosa sempre più rara di questi tempi e nel nostro mondo ­se con la parola esperienza intendiamo ancora, con Italo Calvino, “la ferita più la memoria che ti ha lasciato”.

Se Parigi è stata la capitale del diciannovesimo secolo per il Walter Benjamin che ne scriveva dal primo novecento, per tutti noi che ce lo siamo lasciati alle spalle, Berlino è la capitale del ventesimo secolo. Le due metà del secolo appena trascorso convivono fianco a fianco nella Berlino di oggi, e non c’è alcun muro a dividerle. La prima metà, quella in cui si consuma l’esperienza del Moderno, la ritroviamo, paradossalmente, più nelle centinaia di cantieri disseminati ovunque che non nel Martin-Gropius-Bau in Niederkirchnerstrasse.

È la stessa urbanistica di piano (non necessariamente nel senso di Renzo Piano), sono l’intenzione e la possibilità di pianificare l’edificazione di una città nuova dalle macerie di una città vecchia a essere espressione di una razionalità intimamente moderna. Da questo punto di vista, la nuova Berlino, la Berlino moderna e modernista, è una città vecchia, incarnazione cementizia di una razionalità di previsione e controllo che la postmodernità ha abbandonato da tempo. Una città che cala dall’alto di un’idea astratta e non sorge dal basso degli usi, delle pratiche, dei vissuti delle sue strade.

Da questo punto di vista, cioè dal punto di vista degli uomini schiacciati sull’asfalto giù in basso, i nuovi mirabolanti edifici della Berlino odierna non differiscono nella sostanza dai casermoni dormitorio o dai palazzoni di regime della vecchia Berlino Est.

Sebbene quelli fossero il frutto di una pianificazione totalitaria, e questi di una pianificazione liberale, in entrambi i casi il rapporto che stabiliscono con gli uomini che li abitano o li osservano, è di supremazia. Sembrano edificati apposta per farci sentire piccoli e inferiori rispetto alla forza impareggiabile che li ha innalzati. Allora forza del partito unico, oggi forza del capitale globale.

Ma, come dicevo, c’è anche la Berlino postmoderna, quella dell’ibridismo, della mancanza di profondità, dell’allegria allucinatoria, dell’omogeneizzazione dello spazio orizzontale che produce disorientamento, soprattutto quella dell’indebolimento del senso della storia, del prevalere della dimensione sincronica su quella diacronica. In questa Berlino, il passato, più che venire cancellato, diventa un archivio centrale del tempo, grande serbatoio di immagini da cui ripescare indifferentemente le tracce e i segni più diversi, più distanti, spesso più stridenti, per giocare con loro, ricombinarli, riusarli, farne pastiche. Se ne può fare un’esperienza banale nella sua evidenza programmatica andando in Alexanderplatz, dove le statue di Marx ed Engels voltano le spalle a un enorme palazzo governativo in rovina della Ddr e rivolgono lo sguardo verso il nuovo, scintillante centro commerciale.

Oppure si può prendere la metropolitana fino a Warschauer Strasse, dove un lungo tratto di muro è stato lasciato in piedi al solo scopo di museificarlo. È lo stesso muro che un tempo separava due mondi, istoriato dagli stessi graffiti comparsi il giorno in cui quella divisione è caduta, ma oggi il dramma del passato è diventato il gioco del presente. Lo si è ribattezzato art gallery e riutilizzato come attrazione turistica.

Non a caso vi si accostano quasi solo i turisti, i quali, immancabilmente, si fanno fotografare davanti al murales raffigurante la porta di Brandeburgo e il bacio tra Brezhnev e Honecker. La tentazione è irresistibile, tutto congiura perché tu debba scattare quella fotografia.

Sembra un oltraggio non farlo, sembra che la tua stupida posa da turista sia l’unico senso di tutta la straziante vicenda sepolta nelle macerie di quel muro, sembra che le due metà del mondo e della Germania, dopo un sanguinoso divorzio, si siano riunificate soltanto perché tu possa, in una placida giornata di sole invernale, scattare serenamente la tua foto ricordo davanti all’ultimo brandello superstite del muro di Berlino. Non ti puoi sottrarre al presente quando il passato e il futuro sono stati cancellati, quando il presente è l’unica cosa che rimane. Sarebbe un’enorme arroganza. Io non l’ho fatto. Io mi sono fatto fotografare sotto Brezhnev e Honecker che si baciano sulla bocca.

Per lo stesso motivo, a causa della stessa insondabile e beffarda astuzia della storia, mi sono mangiato un panino con il würstel al Checkpoint Charlie. E senza nemmeno accorgermene. Avevo fame, ero da poco arrivato dall’Italia nel mio albergo in fondo a Friedrichstrasse, così, appena depositata la valigia, mi sono incamminato sulla grande arteria cittadina verso nord e, alla prima caffetteria, sono entrato.

Ai quattro angoli della grande sala, servivano cibi delle quattro maggiori gastronomie mondiali da esportazione e da consumo veloce: la cinese, l’italiana, l’araba e la tedesca (l’hamburger statunitense è infatti chiaramente una derivazione del würstel). Ho optato per il salsicciotto, volendo rendere un tributo al colore locale, e mi sono seduto davanti alla vetrata con la mia bella birra e il mio bel panino grondante cetrioli e senape.

Soltanto allora ho notato, nel bel mezzo della strada, issato su di un palo di sostegno, il ritratto di un vopo fotografato in primo piano e retroilluminato. Dapprima ho pensato alla pubblicità della Benetton. Non so se sia stato Toscani a scattare quella foto ma lo stile è indubbiamente il suo: sovraesposizione iperrealista, colori luminosi, massima definizione dei contorni, sfondo bianco dove un tempo ci fu il fondo oro. Un’icona della contemporaneità.

Poi il mio sguardo ha seguito la traiettoria di uno sgocciolamento di senape sulla tovaglietta in finta carta del fast food, e allora ho capito. Il logo stampato a lettere cubitali sulla tovaglietta mi informava che il locale in cui mi trovavo si chiamava Checkpoint Charlie Bistrot. Il luogo in cui mi trovavo era il famigerato posto di guardia, la frontiera frastagliata di sangue tra due mondi un tempo nemici.

A menzionarlo, la giocosità citazionista della Berlino postmoderna ha messo soltanto un simulacro fotografico della guardia di frontiera dello scomparso impero sovietico. Sul retro, ovviamente, campeggia il ritratto, speculare e gemello, del soldato dell’unico impero ancora in vigore, quello americano. A ben guardare, c’è anche una piccola baracca e il cartello che ammonisce il viandante: “You are leaving the american sector”.

A vederlo oggi, si capisce immediatamente che l’avviso non stava lì ad ammonire il libero cittadino del mondo occidentale sui rischi di una possibile invasione da est, ma ad annunciare la prossima invasione da occidente del resto del mondo. E così è stato.

In questa Berlino postbellica, di un dopoguerra lungamente differito, si è svolta la cinquantaseiesima edizione del Berlino film festival. Fondato nell’immediato dopoguerra (fu inaugurato nel 1951 da una proiezione di Rebecca di Hitchcock), con l’intenzione di fungere da avamposto culturale del “mondo libero” nel mondo prigioniero del comunismo, è ancora oggi connotato dal suo impegno sociale e politico, come dimostreranno anche le scelte dei giurati di quest’anno.

Dal 2000 ha trasferito la sua sede dalle vicinanze dello zoo (quello di Christiana F. e dei ragazzi dello zoo di Berlino) alle meraviglie architettoniche della Potsdamer Platz ricostruita. Le proiezioni principali si svolgono nell’impressionante Berlinale Palast, quelle secondarie in due sontuosi multiplex adiacenti e le contrattazioni dell’European film market addirittura nel Martin-Gropius-Bau, una sede di prestigio adeguata alle operazioni di mercato.

Il programma quest’anno era diviso in sei sezioni: il concorso, Panorama (film da tutto il mondo che facciano da ponte tra arte e mercato, cinema indipendente e cinema commerciale), forum internazionale del cinema (nato come rassegna antagonista all’ufficialità della Berlinale è oggi integrato nel programma ufficiale ma conservando l’attenzione alle nuove tendenze), Kinderfilmfest (dedicato ai film su e per gli adolescenti, anche in considerazione del fatto che i teenager erano un pubblico tagliato fuori dal festival perché troppo grandi per i film per l’infanzia e troppo giovani per assistere alle proiezioni delle sezioni sottoposte al divieto sulla maggiore età, laddove il prodotto medio hollywoodiano ha invece proprio nel teenager americano maschio il suo spettatore ideale), Perspektive Deutsches Kino (prospettiva sul cinema tedesco mirata a inserire con più forza la cinematografia nazionale nel festival), retrospettiva (retrospettive e monografie).

Attorno ai film del vasto programma, la Berlinale organizza un World cinema fund per sostenere produttivamente i filmmaker di Africa, America Latina, Medio e vicino Oriente e Asia centrale, lo European film market, che si offre come appuntamento di mezza stagione (tra il Mifed in ottobre a Milano e Cannes in primavera) per l’industria cinematografica, e il Berlinale Talent Campus, uno spazio riservato alla formazione di giovani filmmaker di tutto il mondo sotto la guida di prestigiosi mentori e, per i più fortunati, anche alla scoperta del loro acerbo talento.

E forse è opportuno partire proprio da qui per comprendere i due grandi temi che animano, quasi segretamente, questa grande festa del cinema nella capitale della seconda guerra mondiale e del novecento: il rapporto tra arte e mercato, il rapporto tra globale e locale. Ossia, il tema unico del pensiero unico: l’affermazione del capitale globale di marca statunitense sull’asse planetario orizzontale e il confinamento dell’arte su quello verticale della dimensione locale (che oramai coincide con quella nazionale). Il mondo del cinema o il cinema del mondo, visto da Berlino, è un’unica sfera disgiuntiva. Sui suoi meridiani corre il capitale globale, sui paralleli scivola via l’arte come fatto locale. La speranza è che, almeno in qualche punto, si intersechino ancora.

Ciò risulta particolarmente evidente se si guarda ai tre cortometraggi prodotti e realizzati dal Talent Campus nei giorni della Berlinale, dopo averli selezionati tra cinquecento soggetti e trattamenti proposti da
cineasti in erba di tutto il mondo.

I tre prescelti, di un boliviano, di un giapponese e di uno statunitense, presentano tutti estremamente marcate le caratteristiche delle culture autoctone dei loro autori: il boliviano racconta con esacerbato sentimentalismo (ma molto sapiente sul piano visivo) un piccolo melò di emigrazione, il giapponese si abbandona all’estetismo delle forme pure antinarrative, lo statunitense gioca abilmente sui luoghi comuni della crisi della coppia e della science fiction in chiave di commedia brillante estremamente entertaining e comunicativa. Vince, ovviamente, lo statunitense.

Sembra oramai chiaro che esistono soltanto due culture cinematografiche al mondo: la cultura dei tanti localismi, coincidenti con ciò che rimane delle identità nazionali, liberi di sperimentare nuove forme di espressione artistica perché tagliati fuori dal mercato, e la cultura globale del cinema commerciale statunitense. Del resto, vale lo stesso per la letteratura.

Salvo qualche rara eccezione, ci sono gli scrittori globali, che sono gli scrittori americani, e poi ci sono gli scrittori nazionali (tedeschi, francesi, coreani, iraniani ecceteraŠ) laddove oramai il carattere nazionale assume un significato di ghettizzazione locale, quasi di primitivismo indigeno, da proteggersi con la passione dell’animalista e da osservarsi con l’occhio dell’antropologo.

Si tratta, ovviamente, di una contrapposizione ideologica, in buona misura falsa, ma necessaria a mappare la falsità del presente. Il contrasto viene, infatti, riprodotto su scala maggiore anche dal festival nel suo insieme. La direzione del brillante e simpaticissimo Dieter Kosslick punta sfacciatamente a sostenere e promuovere il cinema nazionale, al punto da inserire in concorso ben quattro film tedeschi (più diverse coproduzioni), ma si cautela rispetto al successo della manifestazione con la presenza dei grandi film statunitensi, tutti (o quasi) rigorosamente fuori concorso (come dire: giocate pure a fare gli artisti, voi bimbi europei, che noi adulti pensiamo alle cose serie).

Inoltre la giuria, nell’assegnazione dei premi, si atterrà, oltre che al criterio nazionalistico, al criterio contenutistico, cioè politico-ideologico: l’Orso d’oro alla debuttante Jasmila Zbanic, autrice di Grbavica, che racconta degli stupri in Bosnia; gran premio della giuria ex aequo a un’altra opera prima di un’altra donna, la danese Fischer Christensen per En soap (una love story tra una trentenne e una transessuale) e a Offside dell’iraniano Panahi, ennesima denuncia sulle discriminazioni contro le donne nel suo paese; il premio per la miglior regia a Winterbottom per Road to Guantanamo, presa di posizione contro la violazione dei diritti civili a Guantanamo.

Infine, i premi alla recitazione omaggiano il cinema tedesco. I grandi cineasti statunitensi, Altman e Lumet, rimangono in castigo. Marginalismo, contenutismo, sessismo alla rovescia, nazionalismo, antiamericanismo, antimilitarismo (cioè ancora antiamericanismo). È indubbiamente una nuova forma di strisciante zhdanovismo, praticata oggi da molte istituzioni culturali (si pensi al Nobel), questa di usare il prestigio culturale dei “grandi eventi” per premiare presunte opere artistiche per il loro contenuto ideologico o politico. Ma è uno zhdanovismo ipocrita o, comunque, contaminato dalla certezza di dover andare a letto con il nemico. I fautori di questa nuova forma di subordinazione dell’arte alle superiori ragioni della politica, i custodi di questa nuova ortodossia ideologica della conformità alla linea di partito della correttezza politica, sanno bene che la loro difesa del capitale culturale lo riduce in realtà a un momento di una strategia comunicazionale.

Il premio Nobel assegnato allo scrittore dissidente, o disubbidiente, così come l’Orso d’oro assegnato alla regista bosniaca esordiente per un film sulla pulizia etnica, è la scelta più notiziabile in base alle logiche delle comunicazioni di massa. È un altro dei tanti modi di trovare interesse in un’opera d’arte soltanto a partire da motivi extra-artistici. Ci si mette in posa per i fotografi. Si gioca al gioco della comunicazione con le sue regole. E ci si sente astuti. Ma la regola principale di quel gioco, il suo primo comandamento, recita: non avrai altro gioco al di fuori di me.

Abbiamo scelto le storie che meglio riflettono il mondo d’oggi”, ha dichiarato la perpetuamente splendida Charlotte Rampling, presidente della giuria. Ma il mondo d’oggi è anche, e soprattutto, quello di un pubblico mondiale che affolla, a ogni latitudine e sotto qualsiasi cielo, le sale dove vengono proiettati i blockbuster americani. E, infatti, si premieranno anche Grbavica o Road to Guantanamo, ma lo si fa durante una cerimonia che per la prima volta adotta il modello della notte degli Oscar.

Abolita la sobria e discorsiva conferenza stampa che preannunciava i vincitori, ora si punta allo spettacolo in diretta televisiva: glamour vagamente posticcio, sparute folle di esclusi dalla serata di gala ad attendere al gelo prussiano l’arrivo dei piccoli divi, tappeti rossi, lacrime di commozione e ringraziamenti dei vincitori al fato benigno. Si premiano i messaggi politici di Winterbottom o della Zbanic ma il medium è oramai quello di un’imitazione in tono minore dell’apparato spettacolare dello show business americano. E, come sappiamo tutti da tempo, in questi casi, il medium è il messaggio.

Nina Hagen, gloria locale, apre la cerimonia cantando Brecht dal vivo. Subito dopo, però, viene mandato un filmato registrato dei magic moments del festival (sì, è intitolato proprio così) e i magic moments, manco a dirlo, coincidono tutti con l’arrivo delle star hollywoodiane (le più politicamente corrette, s’intende).

Vin Diesel, il macho ultranabolizzato del nuovo action movie hollywoodiano, qui prestato al cinema d’impegno, sbarcando dal suo macchinone d’ordinanza commenta il festival dichiarando: “It’s unbelievable” ­ la parola feticcio che sempre più spesso sostituisce qualsiasi commento sensato sulla propria esperienza ­ e poi lo ripete anche in tedesco. A sentire questa nuova icona del vigore adrenalinico americano usare la lingua di Goethe, viene immancabilmente in mente John Kennedy che, all’alzarsi del muro, sbarcava in una Berlino trepidante per dichiarare “Ich bin ein Berliner”.

Oramai quella frase, come ogni altra frase memorabile, è stampata sulle magliette ricordo. Le vendono all’angolo di Marlene-Dietrich-Platz. Inutile acquistarle qui. Sono le stesse in tutto il mondo. Il tabellone su cui campeggia il volto che fu dell’Angelo azzurro me ne ricorda un altro che ho visto la sera precedente, dove fu il Checkpoint Charlie. A pensarci ora, mi pare dicesse: “You are not leaving the american sector (no matter where you go)”.

[Pubblicato col titolo “Berlino capitale del ventesimo secolo” su Internazionale n.631 del 2 marzo 2006]


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