Par nous deux

 

 

Qualche tempo fa, proprio su queste pagine, Vincenzo scriveva di un mio canestro a sue spese.
Letteratura! Che, mista ad amicizia, ha portato alla mistificazione. Pivottone al quale cedevo e cedo parecchi centimetri, Vincenzo mi ha francobollato tante di quelle stoppate da trauma adolescenziale.
D’altronde alla storia è passato solo un esempio di gigante, dal nome caramelloso, abbattuto da uno scricciolo.
Smessi i completini, oggi non ci ritroviamo di fronte, né per una palla di cuoio  né per un nastro di celluloide, ma accanto. Per un libro: Mia madre non chiude mai di Lorenzo Vecchio.
Stavolta nessuna, seppur bonaria, sfida, nessun balzachiano Á nous deux. È semmai un sommesso Par nous deux.

 

(Sergio Russo)


 

 

“Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta da piccoli gesti anonimi”. Così Calvino, non so dove.
Così vorrei dire io di Mia madre non chiude mai di Lorenzo Vecchio, giovane autore scomparso esattamente un anno fa, a soli 23 anni. Il suo è un romanzo delizioso che racconta la storia di amore ed amicizia di Vinicio, nome da kolossal, ma mestiere da nottambulo conduttore radiofonico; Micol, cieca visionaria di professione enologa e Martino, autore di un solo fortunatissimo romanzo che lo ha reso ricco ed impotente. A contorno, con la forza decisiva di satelliti impattanti, alcuni personaggi di straordinaria efficacia: una bambina cieca dalla nascita, con cui Micol scambia lezioni ed insegnamenti, il vecchio Don Saro da cui Vinicio eredita una casa in montagna che sarà decisiva per lo scioglimento dell’intreccio, Giaime un cane saggio e strafottente, Alice l’amore perduto di Vinicio. Come è stato detto e non si può fare a meno di notare, Lorenzo Vecchio è anni luce lontano da tanta giovane letteratura cannibale e pulp: la parola narrativa viene qui utilizzata per una piccola indagine sulla crisi e su come uscirne nei diversi tempi di sviluppo delle storie dei protagonisti.
All’autore non interessa produrre una critica di questa società, ma piuttosto costruire qualcosa di nuovo, in un continuo combattimento tra possibile realtà ed artificio, ma con un’istintiva propensione per la prima.
La collocazione degli avvenimenti avviene secondo un meccanismo ad orologeria che accosta alcune azioni tra loro, mentre altre le allontana lasciando che si richiamino a distanza di alcune pagine, ricevendo un’evidenza esplosiva che le fa somigliare a piccole epifanie. E questo procedimento non sfugge mai di mano all’autore, soprattutto nell’ultima parte del racconto, dedicata allo scrittore in crisi Martino e al suo romanzo che ha un ottimo spunto di partenza di matrice cinematografica, ma non riesce a trovare gli sbocchi adeguati. Ecco, quegli stralci di romanzo che raccontano di un amore tra particolari doppiatori d’antan, mi hanno fatto sentire come il Lettore di Calvino, goloso di sviluppi ed intrecci ulteriori.
Altre cose sarebbe bello sottolineare: penso alla montagna (l’Etna?) come spazio privilegiato della figura esistenziale dello scrittore, ma anche dell’esperienza letteraria (ed è una figura estetica, quella della montagna, che restituisce ordine e senso alla vite dei protagonisti), alle strutture profonde dei tanti sogni sognati dai personaggi, spie del loro disagio esistenziale, ma dove tutto avviene come in un incantesimo e non come in un delirio, al delicato finale a sorpresa, dove la meraviglia è data da ciò che è consueto e per questo inavvertito. Non voglio togliere, però, troppi piaceri al lettore.
Dirò solo che la vera forza di “Mia madre non chiude mai” sta nella capacità che questo ritratto di amici con cane ha nel conquistarci, per quell’ essere sempre al limite della scollatura da se stesso, come se un’ impercettibile patina di distacco rendesse tutti, autore e personaggi, ironici ed autoironici. Sulla mia esperienza di lettura ha pesato, all’inizio, conoscere la storia di Lorenzo e sapere dei suoi pochi anni, poi non ci ho pensato più e la lettura ha acquistato quella superiore Impersonalità che è di tutti gli scrittori toccati dalla grazia, con l’impressione decisa di assistere ad un miracolo, anche se non a quello più giusto e più bello, purtroppo.
A noi non resta, per dimostrare riconoscenza, che il parlare della sua opera.
Nessuna saggezza, d’altro canto,  avrebbe la capacità di alleviare un peso tanto insostenibile e negativo.
È un modo per dire che siamo stati bene insieme, da scrittore a lettore, in una bellissima amicizia postuma.
Per confermare in un rapporto che spero riguardi molti di voi lettori di Iblalab che a lui la vita non è stata tolta, ma soltanto trasformata.

 

(Vincenzo La Monica)
 
 
È vero, m’ha fatto velo, traditore, conoscere la vicenda di Lorenzo. Ma giusto il tempo della prima epigrafe.
La seconda invece, un aforisma, m’ha sottratto alla realtà per consegnarmi intero  a questo romanzo breve. Non tanto per l’aforisma, quanto per l’autore, un Carneade di turno: Octave. Do di matto per queste epigrafi: le considero da sempre sineddoche, allusive, illusive, ouvertures del libro che sto per squadernare. Ma di questo Carneade ho ignorato l’anagrafe fino alla penultima pagina: Octave è un protagonista dei Taccuini di Augustine, il romanzo nel romanzo. Come al solito, alla fine è sempre il maggiordomo, in cucina, con la rivoltella.Questo gioco di mistificazione, teso a svelare nascondendo, di mise en abyme, dà ,e riceve, ancora più luce alla, e dalla, prima dedica di Lorenzo ai suoi genitori. Memoria e finzione: da sempre scaturigine della grande letteratura. Nascondersi d’altronde è il tema ricorrente di questo romanzo. Giocano a nascondersi i personaggi, gioca a nascondersi l’autore. Ma è un nascondersi che non sa di fuga, ma di momentaneo allontanamento. Forse per ritrovarsi. Sicuramente per essere ritrovati. Non a caso nel quadro finale, in dicotomica opposizione al quadro iniziale, tutti i protagonisti  compaiono insieme. Se all’inizio una segreteria telefonica annunciava il decesso di Don Saro, ora si festeggia una nascita. Ed anche il piccolo quesito in lingua straniera che ci ha accompagnato per 111 pagine viene risolto.
Mia madre non chiude mai è un romanzo breve – ove balugina Carver, magari con apparizioni non tanto fugaci – che ci consegna schegge di vita di tre personaggi, Vinicio Micol e Martino. A ciascuno un capitolo ed un registro linguistico, ma inevitabilmente complementari. Tanto da ritornare ad essere, a chiusa di ogni capitolo, trio indissolubile.  A far da perno, base d’appoggio, leva, è sicuramente Micol. Insieme a loro un cane. Dal nome tanto impegnativo, Giaime, da non poter essere sottaciuto. Né per il richiamo a Pintor né per la funzione di snodo narrativo.
Se davvero questo romanzo riesce nell’ intento di essere più largo della vita credo lo debba  alla lezione stendhaliana: Plus de détails, plus de détails… il n’y a d’originalité et de verité que dans les détails. Proprio le descrizioni, la cura dei particolari, dei dettagli, delle micro-storie, inchiodano alla pagina, a cercare nei gesti quotidiani maniacalmente descritti, tanto banali quanto tirati a lucido da una prosa arguta, sapidissima, affilata, non l’autore ma se stessi.
Lorenzo possiede, consapevole, un’ironia che, se da un lato appaga la sua intelligenza, dall’altro strizza l’occhio al lettore. A quest’ultimo spetta ruolo non minore rispetto al retablo dei personaggi principali: a lui il compito di immaginare cosa succederà dopo. Neanche tanto dopo, basterebbe già immaginare la bimba. Sara: a voler mettere l’accento su questo nome, alla lettera, è già un futuro.
Ma c’è anche Pirandello, o almeno mi pare: il blocco dello scrittore, Martino, che avrebbe ben figurato nei romanzi di Vila-Matas, ed il suo rifiuto della scrittura, al bivio di una vita o scritta vissuta,  ha un riflesso, o forse un riflusso, Moscardiano. E’ l’ennesima mise en abyme rovesciata: il  romanzo non compiuto  permette a questo di esistere. Dalla scelta di Martino fra vita e forma, prende forma e vita il romanzo di Lorenzo.
Forse c’è tutto questo e l’epigrafe di Octave mi darebbe forza e conforto.
Però c’è, innegabile, la bellezza dei vent’anni, coi suoi sogni, mischiati a ricordi tenuti insieme da speranze e paure.
Ed io e te Vincenzo ne sentiamo ancora distintamente l’eco, forse perché trova così prossimo il muro dei nostri trent’anni su cui riverberare.
Ma nella misura in cui la letteratura è la più alta forma di verità, allora questo romanzo non viene meno al precetto di Martino: Non si può scrivere un romanzo non necessario.
Ed è necessario questo romanzo, nato dall’assenza  di un altro. Come Sara, da Don Saro.
Ma soprattutto è necessario perché è una storia bella, bella proprio come quelle coi frigoriferi che ronzano.

 

(Sergio Russo)

 

Troppo tardi per stabilire chi vinse e chi perse a basket, a me e Sergio il tempo chiede di riscuotere qualche credito.
Bisogna decidersi, prima o poi, sul da farsi.Nello specifico, siamo arrivati tardi per conoscere Lorenzo Vecchio, se non come finissimo scrittore. Dispiace non aver letto per tempo Mia madre non chiude mai. Intendo quando l’autore avrebbe potuto ribattere qualcosa, smentirci, dirci qualche mala parola o qualche grazie senza che il tutto non assumesse l’aria di un ricordo dalle belle parole obbligate. Non è così e lasciamo ai lettori di Lorenzo il piacere di scoprirlo da soli. Con la certezza che anche la critica, quella vera,  dovrà accorgersi prima o poi di questo talento.
È l’undici di giugno e ha appena smesso di piovere. Non c’è che dire, siamo in ritardo.
Anche per la consegna di questo scritto.

 

(Vincenzo La Monica)


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