Volver di Pedro Almodóvar

Il genio di Almodóvar e gli occhi di Penelope Cruz. La scollatura morbida e rotonda inquadrata dall’alto a contrastare con la dura linearità della lama del coltellaccio da cucina che ha ucciso il primo uomo-orco che incontriamo nel film. Le donne e le loro storie che si intrecciano, le donne di una famiglia che si muovono tra segreti inconfessabili, morti ineluttabili, fantasmi improbabili, e sullo sfondo pochi uomini, rappresentati nella loro schiavitù alla concupiscenza, riscattati solo in parte, dalla vivace quanto sporadica onestà dei componenti di una troupe cinematografica (ma forse è solo un piccolo omaggio del regista alla sua équipe). Su tutto soffia un vento “picaresco”, che, costante, si diverte a scompigliare i capelli, a far volare i fiori dalle tombe di un cimitero di morti veri, futuri e che ritornano, a pilotare i destini di incendi improvvisi di case e di uomini. Un vento che muove le pale di una centrale eolica, il cui fascino quasi futuristico pare colpire la fantasia di Almodóvar. Forse per il movimento quasi ipnotico delle pale (chi non si distrae dalla guida per guardarli?), oppure perchè immagine stilizzata dei Mulini a Vento di Cervantes, le inquadrature di questi sterminati prati di giganteschi fiori di acciaio, sottolineano ogni passaggio da Madrid al paesello natale delle protagoniste, che non a caso si trova ne la Mancha, quasi a presagire l’imminenza di scontri grotteschi dagli esiti epici.
Le donne che prendono parte allo svolgersi della trama narrativa caratterizzano la molteplicità dell’archetipo femminile: la sensualità incontenibile di Penelope Cruz (Raimunda, la protagonista), attrice dotata di una bellezza molto peculiare, capace di trasformarsi in poche espressioni da oggetto del desiderio a piccola donna insignificante; la figlia Paula, ennesima incarnazione della Lolita con una connotazione di innocenza e inconsapevolezza non presente nella ninfetta di Nabokov; Sole, sorella di Raimunda, il cui nome per esteso (Soledad) sembra richiamare le sue incertezze di donna sola per destino, e non è un caso che a chiamarla così sia solamente il “fantasma” della madre, di colei che, imponendole questo nome, ne avrebbe scritto anche il destino; Augustina, bizzarra vicina di casa, vittima malinconica delle scelte altrui; zia Paula svanita vecchierella che adora Raimondina e ignora quasi del tutto Sole; e infine la madre Irene (interpretata da una bravissima Carmen Maura), improbabile fantasma, “morta vivente” che ritorna perché non può prescindere dall’amore verso chi, per sue fatali ma involontarie distrazioni, ha sofferto le conseguenze della violenza e della sopraffazione.
In uno dei suoi film più cinematografici Almodóvar ci narra la storia di queste Donne che, pur essendo dotate di quella vitalità fuori dalle convenzioni tipica del regista spagnolo, si muovono in un contesto che tra prevedibili e comunque geniali colpi di scena riesce a coinvolgere lo spettatore, a comprenderlo quasi al suo interno, a regalargli quella miscela di stupore, divertimento, lacrime e riflessione che ogni buon film dovrebbe essere in grado di trasmettere.

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