La storia del giornalista afghano arrivato a Palermo «Scrivevo contro talebani, mi cercavano per uccidermi»

La storia di Habib Hedayatullah Mansoor è quella di un uomo di 32 anni che da un giorno all’altro ha abbandonato tutto quello che aveva e insieme alla sua famiglia è volato in Italia. Una storia comune a quella di chi, da quando il regime talebano è stato lasciato al potere in Afghanistan, ha provato a lasciare il paese mediorientale. Sono ancora vive le immagini dell’attentato all’aeroporto mentre partivano i voli umanitari. A bordo degli aerei centinaia di persone cercavano di salvare la propria vita e garantire un futuro ai loro figli. Figli che in alcuni casi sono stati affidati ai militari. 

Habib ha avuto la possibilità di portare a Palermo tutta la sua famiglia. È arrivato con la moglie e i due figli, un bimbo e una bimba di sei e quattro anni. Da più di un mese sta provando a ricostruire la sua vita grazie allo zio Shapoor, che da 25 anni vive a Palermo e lavora come cuoco nel ristorante Maltivolti. Habib è un giornalista e blogger che prima dell’arrivo dei talebani lavorava con i governatori dell’Afganistan. «Lavoravo per la pace, facevamo trattative di pace – racconta a Meridionews – Sfortunatamente il passaggio tra i due governi è stato un problema per tutti noi, non potevamo vivere più nella stessa maniera. Eravamo prigionieri in casa nostra, nessuno poteva uscire». Habib racconta in inglese come all’improvviso la vita nel Paese d’origine fosse diventata un incubo. «Eravamo costretti a cambiare posto dove vivere, perché continuavo in quanto giornalista a scrivere contro i talebani, contro il loro governo. Ero nel loro mirino. Volevano arrestarmi, ci hanno provato – spiega – ma non conoscevano bene il territorio, la loro tecnologia non era abbastanza avanzata. Sono arrivati dal sud delle montagne e ho capito che non avevamo altro tempo da perdere». 

Quello è stato il momento in cui bisognava scappare. «Abbiamo abbandonato casa, vestiti, tutto. Così ci siamo salvati», aggiunge. Dall’Afghanistan si sono spostati nel Pakistan ad Islamabad, da dove il 13 dicembre è partito il volo che li ha ricongiunti con lo zio. «Fino al 2013 ho lavorato per una radio, poi per un giornale online. Trattavamo argomenti come la libertà, il diritto delle donne e anche contro il terrorismo – ricorda Habib – Il nostro network aveva più di 500mila persone iscritte e gli articoli venivano letti da due milioni di persone. Nel 2014 ho lavorato con il primo ministro e nel 2019 con il consolato. Ho lavorato con un ministro donna per portare avanti i loro diritti. Avevamo così tanti progetti per i diritti umani». Habib racconta come nonostante gli appelli del governo a combattere per la libertà, la situazione con i talebani sia precipitata rapidamente. «Non potevi uscire di casa neanche per provare a comprare del cibo, soprattutto io e la mia famiglia ci siamo dovuti nascondere. Un mio vicino di casa di nascosto riusciva a portarci qualcosa da mangiare».

Dopo essere arrivato in Sicilia, Habib sta provando a imparare l’italiano. Vorrebbe continuare a lavorare come giornalista. «Ho studiato parecchio, ho un master, una laurea. Ero un giornalista politico, mi occupavo di relazioni internazionali, amo fare il giornalista – ribadisce – So però che nel frattempo dovrò fare qualsiasi cosa per provvedere per la mia famiglia». Nonostante si trovi a migliaia di chilometri di distanza, il pensiero va a quanti sono rimasti in Afghanistan. «Alcuni membri della mia famiglia non sono potuti scappare, sono nascosti in casa. Se scrivo articoli contro il terrorismo – ammette – ho paura che i talebani possano prendersela con loro. Purtroppo non esiste un sistema giuridico, i soldati arrivano e ti uccidono». Un mondo molto diverso dalla nuova vita palermitana. «La Sicilia è bellissima, ci sentiamo finalmente sicuri – va avanti -. Al momento mio zio provvede per tutti, ma piano piano faremo tutto. I miei figli hanno cominciato a parlare italiano, già dicono alcune parole, piccole frasi e quando vanno a letto vengono da me a dirmi “buona notte, papà”». 

Un ruolo importante nell’arrivo della famiglia afghana lo ha avuto Claudio Arestivo, uno dei fondatori del ristorante Maltivolti dove lavora lo zio di Habib. «Sto cercando di aiutarli a integrarsi – commenta -. Grazie a una serie di interlocutori e organizzazioni stiamo cercando di trovare una sistemazione abitativa, perché al momento si trovano a essere in undici in una sola casa». La macchina della solidarietà si sta muovendo anche per iscrivere i bimbi alla scuola materna e alla primaria e far seguire a tutti un corso di alfabetizzazione per poter parlare italiano. Arestivo ha vissuto in prima persona tutte le varie tappe che hanno portato la famiglia di Shapoor a Palermo e ricorda come episodio emotivamente più forte quando hanno ricevuto in piena notte la telefonata del contingente italiano da Kabul. «Ci hanno detto di contattare le famiglie di cui ci stavano occupando e di farle arrivare in aeroporto il prima possibile – racconta -. Una famiglia non è riuscita a partire con l’ultimo volo organizzato dal governo italiano ma quel ritardo ha salvato loro la famiglia, scampando all’attentato all’aeroporto». La famiglia era proprio quella di Habib.


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