Quel «porto sicuro» per le latitanze di Cosa nostra La storia mafiosa del piccolo Comune di Mezzojuso

Il cugino di, il marito di, il fratello, il padre o la moglie di. Delle 2.900 anime, ce ne sarebbero alcune che a Mezzojuso vanterebbero almeno un parente arruolato tra le fila di Cosa nostra. E quando non è un vincolo di sangue a fare il legame, pare sia un rapporto di amicizia, di collaborazione o semplicemente di stima. Un paese mafioso dove tutti sono mafiosi? Certo che no. Ma su Mezzojuso peserebbe una storia non esattamente gloriosa, che negare o minimizzare può solo rendere più ingombrante e ambiguo un passato, anche recente, in cui con la mafia si andava a braccetto. 

Almeno secondo quanto scritto nero su bianco nella relazione della prefettura di Palermo al ministero degli Interni, dopo che per tre mesi gli ispettori hanno vagliato ogni documento, atto, ma anche rapporti, parentele, conoscenze, frequentazioni, abitudini del paesino del Palermitano, dove a dicembre il consiglio comunale è stato sciolto per mafia. Sullo sfondo di una generale incredulità di buona parte della comunità. Nelle 239 pagine della prefettura i primi nomi in cui ci si imbatte sono, non a caso, quello di don Cola La Barbera, l’allevatore che ha offerto il proprio casolare al boss Benedetto Spera per nascondersi durante la latitanza, quello di Giuseppe Russotto, intermediario che si occupava della corrispondenza tra Provenzano e i sodali, e quello di Giuseppe Riggi, ritenuto anche lui un postino di zio Binnu.

Nomi dietro cui si celerebbe «il significativo intreccio di parentele, relazioni personali ed economiche, nonché di comunanza di interessi con amministratori, consiglieri e dipendenti. Intrecciati e complessi rapporti rilevano ancor più ove si consideri la dimensione molto piccola del Comune, in cui rapporti familiari e di contesto hanno inevitabilmente un peso condizionante», si legge nella relazione. Ed eccoli lì, quei rapporti e quei legami, alcuni davvero storici, tramandati addirittura all’interno delle famiglie del paese. Tutti protetti, per così dire, dai numerosi omissis apposti dalla prefettura. La storia, passata ma anche recente e ripercorsa nelle 239 pagine della relazione, racconta di una famiglia mafiosa «inserita organicamente all’interno del potente mandamento mafioso di Corleone, che comprende anche le ulteriori famiglie di Prizzi, Roccamena, Godrano, Campofelice di Fitalia, Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano e Contessa Entellina». Tutti alleati coi corleonesi, insomma, che hanno inaugurato dagli anni ’60 a seguire un’epoca particolarmente «aggressiva e pervicace». È una mafia, quella, che non guarda in faccia neppure donne e bambini, e che non risparmia un tessuto sociale sempre più aggredito attraverso l’influenza e la meticolosa infiltrazione negli appalti, nella politica e nell’apparato burocratico della pubblica amministrazione.

Arrestato Totò Riina, però, il clima cambia. Il suo successore, infatti, è quel Provenzano che inaugura una stagione decisamente meno violenta, in cui boss, affiliati e complici tentano di tenere un profilo basso. Da una Cosa nostra stragista a una Cosa nostra sommersa, che «ha per lungo tempo eletto quale base operativa per i suoi incontri riservati e quale domicilio sicuro per la sua clandestinità proprio Mezzojuso, nelle campagne di fidati uomini legatissimi al boss latitante, che hanno provveduto nel tempo a nasconderlo e a favorirne i contatti, beneficiando di converso della vicinanza al capo di Cosa nostra in termini di potere mafioso, di penetrazione nella pubblica amministrazione e di vantaggi negli affari», scrive oggi la prefettura, andando indietro nel tempo. Ma senza neanche andare troppo lontano, sono ben tre i momenti salienti in cui a essere coinvolto è proprio il territorio di Mezzojuso. Il primo è quello del blitz del 1998 Grande Oriente, in cui vengono arrestati i postini, i vivandieri e gli autisti che aiutavano Provenzano a gestire gli affari interni ed esterni di Cosa nostra. Un’operazione che fa emergere come il contesto ambientale di Mezzojuso sia stato considerato da Provenzano, allora latitante, «un porto sicuro» potendo contare su vaste connivenze. Fra gli arrestati in quel blitz c’è pure Giovanni Napoli, anche lui autista e vivandiere del boss, insospettabile veterinario locale ritenuto a capo della famiglia mafiosa di Mezzojuso.

Nel 2001, appena tre anni dopo, un altro momento cruciale per il paese: dopo sette anni di latitanza viene arrestato Benedetto Spera, nascosto nella masseria di don Cola, arrestato pure lui quel giorno. È don Cola infatti, insieme a Giovanni Napoli, a curare la latitanza di Provenzano, «ad accudirlo», come si legge nella relazione. È don Cola a cucinare per lui, a mettere a sua disposizione i suoi strettissimi e fidati parenti per la gestione delle più delicate operazioni logistiche legate alla latitanza del boss e all’organizzazione delle sue riunioni con altri capi mafia. Ancora una volta tornano in scena proprio i fidati parenti, anche quelli acquisiti. Don Cola è infatti suocero di quel Giuseppe Riggi condannato nel 2006 in appello per associazione mafiosa, «per aver contribuito a mantenere e assicurare le comunicazioni tra capi mafia latitanti, quali Provenzano, Spera e altri, per aver utilizzato i locali destinati alla sua attività lavorativa quale centro di smistamento dei pizzini». 

Don Cola muore nel 2004 e il questore vieta i funerali pubblici. «Tuttavia tanti tra i cittadini andarono ugualmente a rendere omaggio all’uomo di fiducia di Provenzano, sostando presso il cimitero cittadino – si legge -, l’ubicazione topografica del cimitero di Mezzojuso non lascia dubbi sulla motivazione della presenza in quel luogo che non è di transito. Tra i presenti – pare – anche il sindaco Salvatore Giardina, all’epoca assessore alla Pubblica istruzione, come annotato in una relazione di servizio dell’arma dei carabinieri». La circostanza è stata confermata dallo stesso sindaco in occasione della trasmissione televisiva Non è L’arena condotta da Massimo Giletti il 12 maggio 2019, ma che lo stesso ha successivamente e perentoriamente sconfessato, anche di fronte ai giornalisti di MeridioNews

E poi arriviamo al 2018 e al blitz Cupola 2.0, nel quale viene arrestato anche Simone La Barbera detto il lungo, figlio di don Cola, ritenuto responsabile di alcuni reati commessi di concerto col mandamento di Belmonte e di Villabate. «La sua imputazione è riprova dell’autorevolezza che viene riconosciuta al figlio di don Cola per trasmissione paterna e per la sua provenienza familiare. Simone La Barbera – si legge ancora nella relazione – è indicato dalla Commissione di accesso ispettivo quale anello di congiunzione fra la mafia di Provenzano, incarnata dal padre, e quella moderna di Cupola 2.0». Tanti i reati nella sua fedina penale: dal danneggiamento alla tentata estorsione, dall’invasione di terreni all’introduzione di animali nel fondo altrui al pascolo abusivo all’interno di altre proprietà. Nel 2018 viene anche rinviato a giudizio insieme al cugino Giuseppe La Barbera alias fasola, a Liborio Tavolacci e Antonino Tantillo «per aver commesso atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere Irene, Gioacchina, Marianna Napoli e Gina La Barbera a cedere la proprietà o la gestione della loro azienda agricola».

Accuse delle quali dovranno rispondere nel processo attualmente in corso al tribunale di Termini Imerese. A inizio del quale la corte ha rigettato la richiesta di costituzione di parte civile avanzata dall’amministrazione comunale: «Lo stesso sindaco – si legge a proposito, in riferimento all’ormai ex primo cittadino Salvatore Giardina -, perché condizionato dai citati intrecci di parentela, che caratterizzano anche i rapporti di altri amministratori comunali e degli stessi dipendenti del Comune colleghi di Irene Napoli, non riesce a prendere le distanze dalla mafia in maniera chiara e a voce alta, né ad esprimere in maniera convincente la solidarietà propria dell’amministrazione comunale alle donne». Mentre più avanti, sulla stessa linea, la relazione prosegue facendo riferimento agli illeciti amministrativi riscontrati durante l’ispezione, alle anomalie e alle violazioni di legge, anche in tema di protocolli di legalità, circostanze che secondo la prefettura sarebbero una manifestazione chiara della «volontà dell’amministrazione di apparire soltanto formalmente vigile sul rischio di infiltrazione mafiosa nelle proprie attività».

Si parla infatti di una «persistente e ininterrotta violazione al codice antimafia e omesse richieste della documentazione antimafia per le attività contrattuali autorizzatorie». Mentre sul versante urbanistica e tutela del territorio la prefettura segnala «l’assenza di permessi e controlli e illegittime/impossibili autorizzazioni edilizie in sanatoria concesse a soggetti legati ad ambienti mafiosi. Oltre all’inesistente attività d’indirizzo finalizzata alla prevenzione e alla repressione degli abusi edilizi. Il lavoro della commissione si è focalizzato sulla definizione delle pratiche di rilascio di titoli abilitativi alla trasformazione edilizia e le concessioni edilizie – si legge più avanti -. Al riguardo è emerso che nel mese di marzo 2017 a poca distanza dalle elezioni amministrative per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale, indetta il 12 aprile 2017, sono stati rilasciati solo due permessi in sanatoria, che riguardano soggetti direttamente o indirettamente legati ad esponenti della locale famiglia mafiosa, rivelando in modo chiaro la capacità di condizionamento di un ganglio essenziale della vita amministrativa dell’ente locale, cioè quello del governo del territorio dell’esercizio dell’attività edificatoria, piegando a proprio favore le procedure dettate in questa materia da legislatore».

Il ruolo, insomma, di questo piccolo territorio è, per gli ispettori, di grande centralità nelle dinamiche della geografia mafiosa. «Al confine delle province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta e per questo prescelto quale luogo per importanti latitanze e quindi luogo di incontri riservati nelle masserie e negli ovili della zona per decisioni strategiche per la stessa sopravvivenza di Cosa nostra e per la consegna di ordini e direttive». Dopo i tre mesi sotto la lente degli ispettori del ministero, «è emersa una stretta colleganza di fittissimi rapporti di parentela e frequentazione tra i componenti dell’organo di governo, dell’organo elettivo e della macchina burocratica, che determina inevitabilmente una gestione della cosa pubblica senza contraddittori significativi (per via della minoranza in consiglio dimessa in blocco dopo che la storia delle sorelle Napoli è diventata un caso mediatico, ndr), che contribuisce ad esporre la gestione del Comune a processi estranei all’interesse pubblico e a favorire quel contesto mafioso cui molti appartenenti agli apparati di governo e di amministrazione non sono estranei per contiguità familiari e amicali».


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