«Un imprenditore di Milano non voleva si fermassero le stragi» La versione di Giuseppe Graviano. «Non mi fate dire il nome»

«I pentiti? Hanno detto cose non vere». Ha parlato per tre ore, Giuseppe Graviano, davanti ai giudici della corte d’assise di Reggio Calabria. Il boss di Brancaccio è imputato nel processo ‘Ndrangheta stragista insieme a Rocco Santo Filippone, uomo all’epoca a capo del mandamento tirrenico della mafia reggina. I due boss devono rispondere di essere stati i mandanti degli agguati ai due carabinieri uccisi il 18 gennaio 1994 in Calabria, Antonio Fava e Giuseppe Garofalo. Un delitto, il loro, che secondo la ricostruzione dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia reggina si inserisce nel quadro più ampio della strategia di terrore messa in atto da Cosa nostra con gli attentati di Firenze, Roma e Milano, in accordo con le cosche della ‘ndrangheta. Una vera e propria guerra allo Stato, fatta a colpi di autobombe e di fucili a canne mozze. Eppure, malgrado abbia manifestato più volte in aula l’intenzione di raccontare la sua versione dei fatti, sin dal principio non ha mai contestato l’ordinanza a monte del processo in corso, pur non trovandola corretta in buona parte del suo assetto. Come mai? E, soprattutto, cos’è che non corrispondeva al vero?

«Quasi tutta – dice secco al pm Giuseppe Lombardo -. Togliendo le intercettazioni con Adinolfi, quasi tutte le parti. Le dichiarazioni di Spatuzza, le dichiarazioni di Tranchina, le dichiarazioni di Onorato, di Brusca. Io chiedo di essere messo a confronto con tutti i collaboratori di giustizia che mi hanno accusato in questo procedimento. Ho delle sentenze definitive, rispetto la sentenza, rispetto i giudici che l’hanno emessa, però non si possono aspettare che se dicono che l’asino vola io lo ripeto, il mio ruolo non è quello che si legge da quelle sentenze. Prendiamo la sentenza su via D’Amelio: io sono stato condannato con sentenza definitiva sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sono trascorsi 20 anni dal Borsellino bis, e lui poi è stato dichiarato inattendibile. Io posso spiegare tutto». Perché non farlo prima? «Perché il giudice mi contesta il tentato omicidio. Ma ci sono altri tre omicidi – replica Graviano -. Finché l’avvocato d’ufficio mi ha detto di non contraddire il giudice, e quindi non ho risposto, perché non ero preparato, io rispondo a che cosa, che non sanno nemmeno le domande che mi devono porgere». Un botta e risposta veloce col pubblico ministero, che mal digerisce le spiegazioni di Graviano. Fino a che il boss, a un certo punto, ammette di aver maturato quell’intenzione a processo in corso.

«Abbiamo sentito collaboratori di giustizia di tutta Italia – torna a dire -. Io sono stato più silenzioso ad attendere, ad aspettare, ora io posso dedicarvi un po’ di spazio». Spazio per spiegare come certi pentiti abbiano cambiato più volte versione rispetto alle accuse rivolte contro di lui. Fatti, episodi, nomi, contestazioni, fino all’omicidio del padre dal gruppo armato Grado-Contorno. «Secondo le mie conoscenze, quelle di Spatuzza sono tutte bugie». E tutti gli altri? «Mi dica chi sono e io risponderò», ma il pm si rifiuta di seguire il copione che Graviano tenta di imporre, ribadendo che le dichiarazioni di decine di collaboratori che parlano di lui collimano tutte e portano a quel ritratto che emerge, infine, dalle sentenze definitive a suo carico. «Vada a indagare sull’arresto fatto nei confronti di Giuseppe e Filippo Graviano e lei scoprirà i veri mandanti delle stragi – replica il boss al pm -, scoprirà chi ha ucciso il poliziotto insieme alla moglie, Agostino. Scoprirà tante cose, però i carabinieri devono dire la verità, non le chiacchiere. Io non lo so cosa c’è nella mente dei collaboratori di giustizia… Risalirete ai veri responsabili delle stragi e non solo». Ma chi sono, quindi, questi veri responsabili? «Io non faccio l’investigatore», replica lui, senza fare alcun nome.

«Io poi dentro al carcere ho incontrato altre persone – prosegue poi -, che mi hanno raccontato che c’era un imprenditore di Milano che gli interessava che non si fermassero le stragi. In quel periodo c’era un ministro degli Interni che cercava un accordo e tramite un loro politico si sono rivolti alle persone di Enna di…di fermare le stragi, quindi interessava eliminare questo ministro di quell’epoca…». Ma chi è che parla a Graviano di questo imprenditore di Milano? «Questo si evince dalle mie conversazioni con Adinolfi – dice subito -, io vi chiedo una gentilezza: se io ho avuto delle confidenze io non posso poi pubblicamente riferire questi nomi perché non mi sembra corretto, perché rispetto le confidenze che ho, non mi fate dire il nome perché non dirò nessun nome pubblicamente. Mi parla di un imprenditore che si evince dalle intercettazioni, però a me non fate dire il nome pubblicamente perché non riferirò nessun nome. Le ho apprese nel carcere di Spoleto, 2006-2007da un altro detenuto di Napoli, perché mi avevano chiesto di eliminare questo ministro di allora affinché non intervenisse per fermare questa situazione, perché questo ministro tramite un suo politico che era suo figlioccio si era rivolto a persone siciliane, persone di Enna, che hanno risposto “noi non ne sappiamo niente, ora ci informiamo con tutti”, aggiungendo che “qualsiasi sia la risposta, ci dovete promettere che qua alla pista di Pergusa portate le gare di Formula 1 e un grande centro commerciale in quelle zone per fare svegliare la città, troppo piccolina».

«Non so perché le stragi dovevano proseguire, si vede che c’era questo interesse. Voi avete le intercettazioni e i nomi di questi napoletani, i nomi degli altri, avete gli strumenti», dice al pm. Gli inquirenti, insomma, incrociando dati ed evidenze già a disposizione e le dichiarazioni di adesso del boss di Brancaccio potrebbero, secondo lui, risalire a tutta la verità: chi erano quegli imprenditori, chi voleva che le stragi continuassero e perché. «Infatti il discorso non si è concluso col mio arresto, dopo c’è stato Contorno…va be mi fermo qui», tronca all’improvviso Graviano. Che, al contrario, su altri argomenti è un fiume ininterrotto di ricordi, parentesi aperte e mai chiuse, di racconti che non arrivano mai a un punto, di risposte che tendono più ad assomigliare all’impeto di una dichiarazione spontanea che a una risposta a una domanda. Un meccanismo che dilata il suo esame fino a farlo durare poco più di tre ore. Dove i contenuti e le rivelazioni, però, scarseggiano. Conferma, però, che le famose intercettazioni con Adinolfi sono genuine. Mentre sfoglia carte, cita date e udienze e ancora dichiarazioni di collaboratori che vuole allontanare da sé. Un discorso confuso, poco ordinato, che è quasi difficile da seguire. «Ho avuto pazienza a sentire le storielle di Brancaccio e dintorni – sbotta infatti il pm -. Lei ritiene essere falso tutto quello che riguarda i temi di questo processo, mentre ci sta dando lettura di verbali di vecchie dichiarazioni che secondo lei smentiscono certi temi, per me no, che ritiene estranei al contesto calabrese».


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