Omicidio Fragalà, conclusa la requisitoria dei pm Chiesto l’ergastolo per tutti e sei gli imputati

«L’accusa ritiene che sia stata provata la responsabilità degli imputati coinvolti. Il dibattimento ha consentito di dimostrare con chiarezza la matrice mafiosa, la volontà di mettere in atto una vendetta nei confronti dell’avvocato Fragalà, che ha sovvertito la regola fondamentale su cui si basa Cosa nostra, quella dell’omertà – dice la pm Mazzocco -. Mandante occulto di Rotolo e Di Giovanni, fino agli esecutori materiali, in una perfetta catena di montaggio tipica della mafia. Evidente anche il messaggio di punizione che assume la sua morte – prosegue -. E poi, non si può non considerare il contesto e le modalità del delitto: il bastone di legno usato per infierire, la reiterazione e la violenza dei colpi, l’accanirsi su una parte sensibile come il cranio, e poi anche il luogo e la scelta del tempo: uno spazio isolato e coperto dal buio della sera. Tutti elementi che fanno pensare che si sia trattato di omicidio volontario. Gli aggressori avevano chiara la possibilità della morte. Riteniamo valide, quindi, tutte le aggravanti del caso, incluse quella della crudeltà e della ragione mafiosa sottostante al delitto. In virtù delle quali chiediamo l’ergastolo per tutti gli imputati», ha concluso alla fine della requisitoria. 

«Aula bunker, requisitoria dei pubblici ministeri, oggi la richiesta delle condanne. Trovarmi in questa aula dove tutto ebbe inizio nella lotta a Cosa nostra, dove mio padre da giovanissimo avvocato partecipò come difensore e ritrovarmi oggi vittima davanti i suoi assassini mi provoca un certo sgomento – aveva scritto sui social poche ore prima dell’udienza la figlia del penalista ucciso, Marzia Fragalà – . La mafia provoca solo morte e distruzione». Oggi la fine della requisitoria dei pm Bruno Brucoli e Francesca Mazzocco che, tra l’udienza della scorsa settimana e quella odierna, hanno tratteggiato i passaggi fondamentali dell’intera vicenda, dalla sera dell’aggressione, quel 23 febbraio 2010, fino alle battute finali del processo stesso. Che non ha smesso mai di restituire qualche piccolo colpo di scena, come quello della scorsa settimana che ha visto uno degli imputati prendere la parola e ritornare su numerosi passaggi del delitto, quasi una sorta di confessione finale.  «L’avvocato Fragalà fu ucciso perché il suo agire era ritenuto in contrasto con gli interessi di Cosa nostra», sottolineano in più occasioni i pm. Questo, secondo quanto emerso durante il dibattimento, il reale movente di quel brutale omicidio. 

«Alle 20:40 di quel 23 febbraio arriva la prima telefonata alla centrale operativa dei carabinieri dal testimone Claudio Crapa, l’uomo a passeggio col cane che si è trovato davanti alla scena svoltando per via Turrisi. L’aggressore era più alto di lui, che è 1,70, aveva un casco semi integrale, giubbotto scuro, e il testimone vede più di un colpo sferrato da parte sua. Lui si allarma si accosta al muro e resta a guardare la scena con sguardo fisso temendo anche per la sua incolumità, non guarda la scena attorno. Poi la prima chiamata al 112 e il rumore di un bastone che viene buttato a terra. Poi viene sentito subito un altro testimone, Maurizio Cappello. Intanto la vittima arriva al Civico, dove muore tre giorni dopo, il 26 febbraio alle 16:15. Colpiti il cranio, il collo, gli arti a sinistra. L’aggressore si trovava sul lato sinistro – ricostruiscono i pm -, colpendolo alla testa quando già era caduto a terra. Impossibile stabilire con certezza se l’aggressore fosse mancino o meno, tutto dipende dalla posizione reciproca assunta da entrambi sul momento». I testimoni vedono tutti la fase finale dell’aggressione, quando l’avvocato è già a terra, nessuno purtroppo assiste alla fase iniziale di quell’aggressione. Le testimonianze continuano, c’è anche quella di una donna che lavora per la protezione civile che, anche lei, vede un uomo alto e robusto aggredirne un altro a terra con un bastone in mano. «”Era fermo, si è girato, mi ha guardato, ha tirato il bastone ed è scappato” aveva raccontato in aula. più avanti lo aspettava un complice col casco, sono scappati su un Sh bianco 150/300».

L a testimone segue l’aggressore, che prima di scappare sul motore svolta per via Turrisi. «Il bastone viene cercato solo a distanza di tempo, tutti si rivolgono all’inizio alla vittima, c’è un grande afflusso di persone, in questo arco di tempo qualcuno porta via questo bastone che non viene più ritrovato. La testimone va in quel punto a cercarlo coi carabinieri, ma non lo trovano. Chi lo ha raccolto? Se Siragusa non è mai sceso dall’auto e gli altri due sono andati via sul motore, chi se n’è occupato? Qualcun altro, oltre loro tre, ha partecipato a questo omicidio». Fondamentali, nel processo, le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, entrati in alcuni casi a gamba tesa nel dibattimento in corso. Tra i primi c’è Francesco Chiarello, che inizia a collaborare nel 2015, che ai  magistrati indica i nomi delle persone coinvolte in quell’aggressione, contribuendo a portare proprio al processo che si avvia, adesso, verso la conclusione. Per i pm lui è un collaboratore attendibile, in ragione del fatto che avesse anche ampiamente parlato della sua personale escalation criminale all’interno della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, accusandosi anche di un omicidio. Attendibile malgrado la tendenza ad aggiungere alcune fantasie alla ricostruzione che restituisce ai magistrati.  

Poi c’è anche Salvatore Bonomolo, «importante nel processo perché delinea la figura di Francesco Arcuri (uno degli imputati a processo ndr), soggetto che dice di aver avuto a suo fianco, dedito a messe a posto e pestaggi, che parlando in carcere con Auteri seppe già prima del febbraio 2010 che era previsto il pestaggio dell’avvocato Fragalà – spiegano i pm -. Racconta che lui, Auteri e Arcuri già da prima pedinavano l’avvocato Fragalà, “ce lo curavamo noi”, per conoscere i suoi spostamenti. Auteri, dal canto suo, è un soggetto scarsamente attendibile, aveva costanti rapporti con Arcuri ma li ha negati». Ma l’elenco è lungo, e a parlare in aula c’è anche Monica Vitale, che ha collegato il contesto mafioso in cui è avvenuto il delitto e gli imputati a processo, spiegando che il fine non era quello di uccidere il penalista, il movente sarebbe stato un altro, in base a quello che le confidò il suo amante Gaspare Parisi. Ci sono anche le dichiarazioni di Franco e Andrea Lombardopadre figlio, che avrebbero ricevuto alcune confidenze in carcere da parte di Paolo Cocco, anche lui uno degli imputati a processo.

«Pur non negando mai o smentendo le affermazioni di un altro pentito, cioè Chiarello, avrebbe rivelato che a lui erano state attribuite responsabilità maggiori – senza quindi escludersi – e che sarebbe stato informato di quel pestaggio molto prima della sua esecuzione. Insieme a Ingrassia e Siragusa si sarebbe anche recato sul luogo del delitto per controllare la scena a posteriore e controllare la presenza delle telecamere. Aggiungendo che Arcuri aveva avuto il ruolo del mandante – ricostruiscono i pm -. Racconta anche dei rimproveri che Cocco avrebbe ricevuto in carcere, perché parlava troppo e con troppe persone di quel delitto. Uno di questi sarebbe partito proprio da Arcuri». Fino all’ultimissimo collaboratore, Francesco Paolo Lo Iacono, convinto addirittura di conoscere il vero mandante dell’omicidio, che riconosce nel reuccio di Porta Gregorio Di Giovani. Poi, i pm dedicano  un focus specifico agli imputati a processo: «Nel caso di Antonino Siragusa la sua deposizione inizia a vacillare parlando della mazza: è come se non riuscisse a ricordare se è stata gettata nel cassonetto la sera stessa o giorni dopo, se lui fosse presente o meno. Chi ci dice che oggi Siragusa non ci stia dando un’ulteriore diversa versione di quella sera, sempre per farsi “credere di più”? Perché dovremmo credere oggi che la sua ultima versione sia quella definitiva, quella reale?», si chiedono i pm.

Che, tuttavia, nel suo caso parlano di un difetto di ricordo dettato forse più «da problemi di natura psicologica e l’uso di droghe – era soprannominato infatti il drogato -, che da un fatto malizioso. Ci sono comunque dei ricordi che scompaiono nella sua mente, persino sue dichiarazioni che però sono registrate».  Su Antonino Abbate, poi, i pm non avrebbero «nessun dubbio sul suo coinvolgimento nell’omicidio», sulla base di testimonianze, dichiarazioni e rilievi, così come per Castronovo, rispetto al quale i pm oggi si chiedono che «se a Francesco Castronovo era stata chiesta la mazza prima e poi si è dovuto scusare per non averla più portata, non è possibile che non sapesse cosa era successo». Mentre Paolo Cocco entra nelle indagini nel 2015, dopo le dichiarazioni di Chiarello e il racconto del dettaglio del trasporto, da parte sua, della mazza sulla scena del delitto. «Il suo coinvolgimento a pieno titolo emerge anche dalle intercettazioni a suo carico – dicono i pm -. “Per il fatto dell’omicidio può essere che mi vengono a cercare, che c’ero pure io“, questo è il suo commento alla moglie subito dopo aver letto un articolo di LiveSicilia, che per la prima volta divulga che Chiarello ha deciso di collaborare. In quell’articolo, tuttavia,  non si fa mai il nome di Cocco, qindi perché quella reazione? “Possono gettare le chiavi” commenta di rimando sua moglie, a riprova del fatto che il suo coinvolgimento non fu marginale, visto l’ipotesi addirittura della pena massima. Ero in uno stato di ansia tale da ipotizzare un imminente arresto».

Poi c’è Francesco Arcuri, a cui, sulla base delle dichiarazioni, l’accusa riconosce il «ruolo di istigatore del delitto e collettore degli uomini che avrebbero dovuto agire. Oltre al fatto che già prima dell’aggressione pedinava, con altri, l’avvocato Fragalà». E ancora le conversazioni intercettate tra un colloquio e l’altro, o nell’attesa delle udienze del processo, e il suo posizionamento la sera dell’agguato, «il telefono prima improvvisamente spento e poi, dopo il fatto, di nuovo acceso. La telefonata successiva e il riferimento a un’autoambulanza che passava, dimostrando con questo riferimento scollegato dal contesto di essere nervoso per qualcosa». Il suo ricordo tanto indelebile quanto atipico della sua presenza alla solita fischetteria, il giorno de delitto, ben conscio della presenza delle telecamere in zona; il ritrovamento della microspia nella casa di Siragusa e la fulminea telefonata ad Arcuri per avvisarlo. Infine, c’è Salvatore Ingrassia, anche lui subito tirato in ballo da Chiarello nel 2015: «Sin dal principio ha confermato il suo coinvolgimento nel delitto – dicono i pm -. Ci sono anche le immagini riprese dalle telecamere di zona, la fisionomia, ma anche, nel suo caso, un dettaglio in più che attesterebbe la sua presenza lì quella sera: “Nel video lui ci sta“, dice un’ex donna di Ingrassia, commentando alcune immagini alla tv. E l’intercettazione in carcere in cui Ingrassia osserva di essere “consumato“».


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