Giuseppe Benigno, dal tentato omicidio alle manette «Se pure io avevo l’attrezzo, mi giravo e ci cafuddavu»

«Sto andando al Civico, non lo so se c’arrivo». E invece c’è miracolosamente arrivato. Anche se, in quei momenti così concitati, da solo dentro la sua Bmw al telefono con la suocera, non lo credeva possibile nemmeno lui, Giuseppe Benigno. Anche perché quella corsa in ospedale non è certo per un banale incidente. Solo pochi minuti prima infatti, quel 2 dicembre in via Kennedy, le microspie installate sulla sua auto udivano perfettamente il rumore sordo e spaventoso di nove colpi di una 7,65. Subito dopo lo stridio delle ruote di una macchina in fuga. È la sua, quella con la quale Benigno riesce a raggiungere l’ospedale palermitano, dove viene immediatamente soccorso. Di quei nove colpi, solo due lo hanno raggiunto, ferendolo alla spalla sinistra. Dei due assalitori in moto, che lo avevano affiancato coperti dai caschi integrali, nessuna traccia. È l’ennesimo episodio violento che scuote l’apparente tranquillità di un paesino come Belmonte Mezzagno. L’ennesimo perché, mesi prima, ce ne sono stati già altri due di agguati come questo. Con la differenza che da quelle auto, però, sono usciti fuori due cadaveri e non due sopravvissuti.

Sono quello di Antonio Di Liberto, il commercialista ucciso lo scorso 8 maggio poco distante dalla sua villa. Modalità a parte, per molti in paese quello sembra subito un omicidio di mafia. Almeno, questa è l’impressione che ne ha addirittura il padre della vittima, che si adopera subito per vederci chiaro. «Qua è un segnale dato a qualcuno. Un segnale che è fatto proprio con il crimine, “siamo noialtri che comandiamo”. Non me lo leva nessuno dalla testa», diceva l’anziano papà, intercettato a pochi giorni dall’omicidio del figlio. «Qualcuno che faceva di vedetta c’era – prosegue, tornando alle dinamiche del delitto -. Perché lui esce alle 7:50 da dentro e quella mattina è uscito alle 9:15/30». E ad aspettarlo ci sono infatti i killer che lo uccidono, lì in via Umbria, a pochi metri dal campo sportivo del paese. «Io penso che Antonio ha pagato il prezzo che doveva pagare di suo nonno Benedetto e di zio Peppe. Perché può essere che presentò qualche discorso…perché lui sapeva i discorsi di Filippo – ipotizzava un altro compaesano -, e voleva comandare». Quel Filippo è Filippo Bisconti, il boss pentito di Belmonte arrestato nel blitz di dicembre 2018 Cupola 2.0 e che adesso collabora con i magistrati. Lui e la vittima erano, infatti, parenti alla lontana.

Prima ancora di Antonio Di Liberto, c’è un altro cadavere che pesa sulla coscienza del paese. È quello di Vincenzo Greco, un manovale di 36 anni ucciso mentre era alla guida del suo fuoristrada, sulla strada provinciale che collega il paese a Santa Cristina Gela. È il genero di Filippo Casella, ucciso a sua volta nel marzo ’94 quando aveva 32 anni in via Gaetano Costa a Belmonte Mezzagno, mentre era con l’amico Giuseppe di Lorenzo, che rimase ferito. Crivellato di colpi perché ritenuto l’assassino di due uomini uccisi solo un mese prima, sempre in paese. Sono Giuseppe e Giovanni Tumminia, padre e figlio. Ammazzati in un agguato perché cugino e nipote del boss Benedetto Spera, vero bersaglio dei killer, che però si salva miracolosamente. Spera finisce dentro nel 2001, catturato nelle campagne di Mezzojuso dopo ben 9 anni di latitanza. È la guerra di mafia di Belmonte Mezzagno. Tumminia, Casella, sono tutti cognomi noti, in un certo senso. Sono gli stessi finiti, con qualche generazione di differenza, tra le carte dell’operazione di ieri. Di Liberto, Greco e Benigno sono, quindi, solo la conseguenza violenta di una guerra di mafia mai sopita in paese?

Ma è lo stesso, ed unico, sopravvissuto che, almeno all’inizio, escluderebbe l’ipotesi di una lotta intestina per il controllo della famiglia. Al cognato e al fratello che, durante la degenza al Civico, gli chiedono se per caso ci siano stati cambiamenti recenti negli equilibri del paese, lui risponde sicuro di «no, almeno… Per ora guardiamo di tutti, questa è la stessa di Antonio», riferendosi a Di Liberto, che non è uscito vivo dal suo agguato. Ma è lui stesso che, subito dopo, ipotizza che i mandanti potrebbero essere da ricercare proprio nel paese o, al limite, nella vicina Misilmeri. «La mano del paese c’è. Quello che è successo è strano…», dice. Riflettendo sui recenti assetti di Belmonte e su quella frangia decisamente più violenta che sarebbe salita al comando e che non esiterebbe a risolvere le tensione imbracciando le armi. «Io li ho guardati, hai capito? – diceva ancora dal letto dell’ospedale, descrivendo i suoi assalitori -. Avevano i caschi chiusi con la mascherina nera! A quello di dietro gli si è inceppata…e poi quello di davanti fece…hai capito? Qualche cosa del genere è successa. Poi io mi sono stretto – balbetta -, però io ho fregato a lui là che faceva mala vita per prendere…poi l’ha presa e si è messo a cafuddare. Se io avevo pure l’attrezzo, mentre loro tiravano, io mi giravo e ci cafuddavu» dice, spiegando che la pistola di uno dei due si sarebbe inceppata e che se anche lui fosse stato armato in quel momento, avrebbe reagito all’agguato sparando a sua volta. «Questo qua è un segnale…per questo ti dico dei soldi», diceva ancora Benigno.

Ma quali soldi? Sono molte le cose, in fase di indagine sul suo agguato, che la stessa vittima avrebbe, finora, taciuto. Resta il fatto che, secondo quanto si vociferava in paese, in seguito al rovesciamento dei rapporti di forza interni alla famiglia mafiosa di Belmonte, Benigno stava vivendo un periodo di «bassa fortuna», non era cioè più tenuto particolarmente in considerazione dal nuovo capo famiglia. Specie dopo l’arresto di Bisconti, di cui era stato l’autista e che avrebbe accompagnato anche ad alcuni summit, e la sua scelta di collaborare. Scelta che, per gli inquirenti che hanno investigato, avrebbe automaticamente comportato, quasi di riflesso, «la perdita del carisma e della protezione di un tempo» da parte di Benigno. Ma emergono anche alcuni contrasti di natura economica che avrebbero fatto da sfondo al suo tentato omicidio. Non ha precedenti per 416 bis, ma vanta parentele storiche di un certo peso: è nipote, per citarne giusto uno, del boss Giovanni Spera della cosca di Belmonte, all’epoca capeggiata da Benedetto Spera, affiliata a quella corleonese capeggiata da Provenzano. E all’interno della famiglia del paese, Benigno sembra darsi da fare. «Si interessava prettamente del suo lavoro, cercava di starsene un po’ defilato, proprio per evitare di avere problemi con la giustizia e faceva di tutto per riuscirci», racconta di lui lo stesso Bisconti, nell’interrogatorio del 3 dicembre scorso. 

«Proprio per questo motivo non si rendeva conto che certe volte non doveva incontrare persone, se prima non chiedeva autorizzazioni o comunque rendeva a conoscenza chi di competenza, mafiosamente parlando – spiega ancora -. Lo ha fatto più di una volta diciamo, è capitato tante volte. Forse ha trattato argomenti scavalcando persone interessate…io penso sempre a Misilmeri, perché dopo il mio arresto il mandamento sta facendo di tutto per rientrare di nuovo a Misilmeri in toto». Intanto, tolto dalla circolazione Bisconti e con una taglia sulla testa, le considerazioni che gli restano da fare sono ben poche: Benigno vorrebbe scappare, raggiungere un amico che fa l’imprenditore in Lombardia, un po’ sul filo di una tendenza tipica del paese, quella delle «latitanze storiche», per dirla con gli inquirenti. Perciò contatta anche un’agenzia immobiliare di Castel Goffredo, per avere delle informazioni su una possibile abitazione a Medale, nel Mantovano. Temendo sempre di più che le indagini innescate da quell’agguato possano puntare i troppo i riflettori su di lui e farlo finire in carcere. Ma i suoi scongiuri e i suoi piani B non bastano a salvarlo dalla galera, dove si trova da ieri notte. 


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