Omicidio Fragalà, arriva la confessione alle battute finali «Chiedo scusa, io non potevo disobbedire a quell’ordine»

«Esprimo le mie più sentite scuse e una richiesta di perdono ai familiari dell’avvocato Fragalà. Purtroppo non potevo disobbedire a un ordine dall’alto, l’ordine di Antonino Abbate, all’epoca capomafia di Borgo Vecchio ed esecutore materiale dell’omicidio per conto di Gregorio Di Giovanni». Così, a sorpresa, Antonino Siragusa davanti alla corte d’assise di Palermo, riunita nell’aula bunker dell’Ucciardone per celebrare le battute finali del processo per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, aggredito il 23 febbraio 2010 e morto dopo tre giorni di agonia. Doveva essere il giorno della requisitoria della pm Francesca Mazzocco, ma la richiesta a inizio udienza di Siragusa, tra gli imputati alla sbarra, di voler fare alcune dichiarazioni spontanee segna l’ennesimo colpo di scena di un processo che ha attraversato diverse fasi e incursioni a sorpresa. A partire dai collaboratori di giustizia, come Francesco Chiarello che ha dato l’input decisivo per arrivare al processo stesso, all’ultimissima in ordine di tempo, quella di Francesco Paolo Lo Iacono. Ma stavolta a volersi pulire la coscienza è uno degli imputati coinvolti, lo stesso tirato direttamente in ballo dalle dichiarazioni dell’ultimo collaboratore sentito in aula. 

«Avevo già fatto ammenda del mio comportamento precedente davanti a questa corte – dice Siragusa, appena presa la parola -. Confermo tutto quanto detto fino a oggi, anche se non escludo che qualche volta potrei essermi espresso male. Ho un carattere particolarmente emotivo, dopo aver sofferto oltre due anni di isolamento solo da pochi mesi mi ritrovo a essere ristretto in una piccola sezione detentiva. Ho riflettuto molto sui miei interrogatori e sugli errori fatti, ora sono più sereno anche se ho perso i miei familiari e sono rimasto solo. Sento comunque di voler collaborare con la giustizia e sento di aver trovato finalmente il coraggio di dire tutto e di rinnegare la mia appartenenza a Cosa nostra, c’è un marchio di vergogna in me dovuta all’appartenenza di mio padre, che oggi non c’è più, alla stessa organizzazione». La sua «sciagurata adesione», come la definisce lui, è quindi una sorta di eredità tramandata nell’ambito familiare, modalità tipica di Cosa nostra. La scelta di parlare e di dire tutto, però, dipende dalla sua ferma volontà di salvare da un destino simile il piccolo figlio, «spero di rompere questa triste catena». Un distacco netto, pubblico dall’organizzazione mafiosa attraverso queste dichiarazioni, pur non essendo, Siragusa, ufficialmente un collaboratore.

«Siamo ormai alla fase finale di questo processo, voglio chiarire tutto al meglio ora che sono molto più sereno – prosegue Siragusa -. Pur non avendo motivo di dubitare delle dichiarazioni di Chiarello, devo dire che si tratta di un soggetto tuttavia estraneo ai fatti e quindi con conoscenze apprese da terzi, le mie sono di prima mano avendo partecipato a tutte le fasi che hanno portato a quell’omicidio. Io sono certo di non aver mai parlato dell’accaduto né con Chiarello né con Castronovo e Cocco (anche questi ultimi imputati a processo dopo essere stati tirati in ballo proprio da Chiarello, ndr). Voglio fare ammenda su alcune mie dichiarazioni mal poste e che potrebbero essere considerate addirittura false», prosegue intanto Siragusa. Confermando che l’agenzia di scommesse in via dello Spezio era il loro luogo di ritrovo abituale («la frequentavamo stabilmente, lì si svolgevano tutte le nostre attività»). È lì, secondo il racconto di Siragusa, che Abbate tira fuori il discorso dell’aggressione: «Diceva che dovevamo dare all’avvocato una lezione con quattro colpi di mazza. Io chiedevo se non era il caso di coinvolgere qualcun altro visto che doveva essere un pestaggio. Ma lui rispose che Di Giovanni aveva detto che dovevamo pensarci noi e che lui stesso avrebbe dovuto colpirlo».

Poi, sempre Abbate gli avrebbe dato il numero dello studio di Fragalà col compito di telefonare e farsi dire, fingendo di essere un cliente che doveva raggiungerli da un paesino, fino a che ora lo avrebbe trovato lì in ufficio. «Ho chiamato da una cabina di piazza Sturzo. La segretaria disse che sarebbe rimasto lì più o meno fino alle 20.45». Mentre preparano tutti i passaggi dell’aggressione, li avrebbe raggiunti Francesco Arcuri, imputato anche lui, che gli avrebbe chiesto come fossero organizzati per il pestaggio, «quindi ho capito che sapeva anche lui». Intanto, si è fatto già tardi e l’altro uomo incaricato di portare la mazza per l’aggressione (Francesco Castronovo, imputato anche lui, ndr) non si fa ancora vivo. A rimediare ci pensa, quindi, lo stesso Siragusa: «Sono andato in un magazzino dove altre volte avevo preso altro materiale, come un bidoncino usato per un incendio in via Amari – racconta – Intanto si era fatto tardi e dissi ad Abbate che dovevo andare a prendere la mia compagna a casa per portarla a lavoro, al Bingo del Politeama. Fatto questo, l’ho poi raggiunto in via Turrisi, dove c’è lo studio dell’avvocato. Ricordo che chiesi a me stesso come sapessimo che l’avvocato avrebbe fatto quel percorso, ho presunto che Abbate sapesse le sue abitudini». 

Consegna quindi la mazza ad Abbate, e si accende una sigaretta. Poi ecco spuntare l’avvocato Fragalà. I due mettono il casco e parte l’aggressione di Abbate. Ma Siragusa non riesce a vedere bene la scena, per via di alcune automobili lì intorno. «Abbate, accortosi che c’erano delle persone presenti vicino la mia auto, date le circostanze cambiò programma e scappò con Ingrassia, per evitare che qualcuno prendesse la mia targa. Quindi se ne andò su un Sh grigio – racconta ancora -. Andammo via prendendo strade diverse e incrociandoci a piazza San Francesco di Paola. Ci siamo ritrovati poi a casa di Ingrassia. Non ricordo se fu quella sera che buttammo la mazza in un cassonetto». Quella sera, però, continuano a girare per la zona. «Eravamo su una Atos grigia e transitavamo in via Turrisi, dove c’erano alcuni carabinieri. In macchina a quell’ora c’era anche mio figlio, che nel frattempo ero andato a prendere, quindi poi andammo via. Il giorno dopo, in seguito alle notizie di stampa, cominciammo a temere, anche perché le condizioni dell’avvocato si facevano critiche. Siamo tornati ai cassonetti dove avevamo buttato la mazza e gli abbiamo dato fuoco».

«Spero che sulla genuinità del mio racconto non ci siano dubbi – dice poi rivolgendosi alla corte -. Ho ascoltato le accuse false pronunciate qui da Lo Iacono, io non ho mai detto quelle cose che dice, e non l’ho mai aggredito, da quando è arrivato in carcere a Velletri mi sono adoperato per alleviare le sue sofferenze. Quello che lui ha riferito è inverosimile e calunnioso, mi riservo di querelarlo». Chiusa l’inaspettata parentesi, l’udienza prosegue come da rito con l’inizio della requisitoria dei pm Mazzocco e Brucoli, che dovrebbe concludersi la prossima settimana. L’accusa ripercorre ogni momento di quella sera, dalle testimonianze dei presenti sulla scena, che però vedono tutti solo la fase finale dell’aggressione e qualcuno anche la fuga dell’aggressore, alle indagini scattate subito dopo. Fino al movente, quello raccontato da Chiarello. «Questo è un fatto gravissimo proprio per il suo significato – spiega la pm Mazzocco -, si è aggredito un uomo di legge, un professionista visto da Cosa nostra come un ostacolo perché nel caso di alcuni soggetti consigliava come strategia difensiva quella di un’apertura verso l’operato della giustizia, ammetteva come possibile via quella di poter rendere delle dichiarazioni per chiarire i fatti, ammettere le circostanze e in questo modo andava ad ostacolare l’impostazione di Cosa nostra, che è impostata sull’assoluta omertà, ciò che le permette di mantenere la sua forza».

«Cosa nostra non gradiva il suo operato, lo vedeva come un ostacolo che doveva essere punito – torna a dire la magistrata -. “Chistu era cornutu e sbirru, doveva parrari chiu poco“. Doveva essere colpito perché era un carabiniere, perché non rispettava quell’imposizione di omertà su cui si fonda Cosa nostra. La molla che fa scattare l’aggressione è il fatto che lui aveva difeso Marchese e Fiumefreddo in un processo a carico anche di Antonino Rotolo, all’epoca a capo del mandamento di Pagliarelli, che agiva in modo congiunto con quello di Porta Nuova. C’era un legame tra gli imputati e gli uomini di quel mandamento, un legame strettissimo tra Rotolo-Nicchi-Arcuri. Legame che di fatto si intreccia con questo processo».


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