Belmonte, la mafia vintage che spara come 30 anni fa? Agguati e killer per punire i tradimenti di chi si pente

A Belmonte Mezzagno si torna a sparare. O, forse, non si è mai smesso. Gli agguati degli ultimi mesi, l’ultimo in ordine di tempo accaduto solo lunedì pomeriggio, rischiano di restituire la fotografia scolorita di un paese in un certo senso fermo nel tempo. Fermo a più di 30 anni fa, quando la mafia per risolvere le sue questioni armava i suoi killer e organizzava omicidi. A finire sotto i proiettili di due assalitori in moto è stato il 45enne Giuseppe Benigno, imprenditore edile del posto. In due lo avrebbero affiancato mentre si trovava a bordo della sua Bmw, sparandogli contro con una calibro 9. Quattro colpi in tutto, di cui due andati a segno nella spalla e nel costato. Non colpendo, per fortuna, alcun organo vitale. Operato nella notte all’ospedale Civico, dove è arrivato da solo a bordo della sua auto, non sarebbe in pericolo di vita.  

Malgrado sia un incensurato, il suo nome sarebbe comparso in alcune informative dei carabinieri. Benigno, infatti, avrebbe rivestito in più occasioni il ruolo di autista per accompagnare a degli incontri Filippo Bisconti, arrestato un anno fa nel blitz Cupola 2.0 con l’accusa di essere il reggente del mandamento mafioso di Belmonte Mezzagno, che poco dopo l’arresto ha iniziato a collaborare con i magistrati. Nei racconti del pentito ci sarebbe stato spazio anche per quel nome, quello di Benigno, che lo avrebbe accompagnato a un summit di mafia. Un dettaglio, questo, che unito alle modalità dell’agguato all’imprenditore gettano delle ombre sui motivi che avrebbero potuto portare al suo tentato omicidio, ieri. Il legame con Bisconti e, soprattutto, il pentimento del boss potrebbero essere stati la molla per far scattare quell’agguato? Potrebbe, insomma, trattarsi di una punizione per colpire chi ha tradito il mandamento?

Un dubbio legittimo. Considerando che quello che è accaduto ieri a Giuseppe Benigno a Belmonte Mezzagno non è esattamente una novità. Lo scorso maggio, infatti, un altro agguato simile. Solo che questa volta l’uomo preso a colpi di pistola è morto. Antonio Di Liberto, infatti, non sopravvive a quell’attentato. Sono circa le 9 quando il rumore degli spari rompe il silenzio della mattina, Di Liberto è appena uscito dalla sua villa, quando ecco quei colpi contro di lui. Muore pochi minuti dopo, al riparo di un’automobile poco distante, ritrovata parcheggiata col vetro infranto in via Umbria, a pochi metri dal campo sportivo. In paese lo conoscono tutti. Ha 49 anni, tre figli, e fa il commercialista. Ed è il fratello dell’ex sindaco Pietro Di Liberto. Alcuni passanti, percorrendo quella via, notano il corpo esanime all’interno della vettura, avvisando i carabinieri. Salta fuori che è un parente alla lontana sempre di lui, Filippo Bisconti, il boss pentito di Belmonte. Quell’agguato è stato quindi una vendetta mafiosa? Impossibile scartare l’ipotesi.

Prima ancora di Antonio Di Liberto, c’è un altro cadavere che pesa sulla coscienza del paese. È quello di Vincenzo Grecoun manovale di 36 anni ucciso mentre era alla guida del suo fuoristrada, sulla strada provinciale che collega il paese a Santa Cristina Gela. Anche lui, come gli altri, senza precedenti penali. Ma anche nel suo caso c’è un dettaglio che ha subito pesato sull’intera vicenda: è il genero di Filippo Casella, ucciso a sua volta nel marzo ’94 quando aveva 32 anni in via Gaetano Costa a Belmonte Mezzagno, mentre era con l’amico Giuseppe di Lorenzo, che rimase ferito. Crivellato di colpi perché ritenuto l’assassino di due uomini uccisi solo un mese prima, sempre in paese. Sono Giuseppe e Giovanni Tumminia, padre e figlio. Ammazzati in un agguato perché cugino e nipote del boss Benedetto Spera, vero bersaglio dei killer, che però si salva miracolosamente, finito dentro nel 2001. È la guerra di mafia di Belmonte Mezzagno.

Quel nome, poi, Casella, ritorna anche nelle carte del recente blitz Cupola 2.0: si tratta questa volta del 41enne Stefano Casella, per gli inquirenti un uomo di fiducia di Bisconti. Siamo, insomma, di fronte a una guerra mai sopita? Quella che negli anni ’90 vide opporsi allo storico dominio di Spera e dei suoi la cosca emergente dei Casella? I dubbi ci sono. Anche perché il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè «consentiva di lumeggiare ancor meglio la dinamica dell’attacco subito negli anni Novanta dalla cosca storica di Belmonte Mezzagno – per citare le carte delle indagini sulla nuova cupola -. In particolare, il collaboratore aveva appreso direttamente da Spera delle sue intenzioni di voler rispondere all’attacco subito, eliminando “la testa”, la componente militare e tutti coloro che avessero avuto qualsiasi relazione con il citato omicidio». Quello cioè di Antonino Chinnici, imprenditore edile di Belmonte ucciso in un agguato a Palermo nel ’99 e ritenuto uomo di fiducia appunto di Benedetto Spera. Che quel piano, malgrado arresti e condanne, non sia stato mai del tutto accantonato?

Intanto, le indagini in corso stanno vagliando tutte le possibili piste investigative. Compresa quella che porta a una regia occulta da parte di Cosa nostra in quest’ultimo agguato. Sono state acquisite le immagini dei sistemi di videosorveglianza nella zona di via Kennedy, dove sono avvenuti gli spari contro Benigno, per cercare di risalire ai due killer. Che lui stesso, alla guida della sua Bmw, ha cercato di speronare. Ma senza successo. Per tutta risposta, in sella alla loro moto, lo avrebbero affiancato dal lato passeggero continuando a sparare e andando, però, a vuoto. Mentre si insinua, intanto, sempre di più un dubbio preoccupante. Che Belmonte Mezzagno sia rimasto un paese dove la mafia spara e uccide ancora, tra vendette, ritorsioni e pentimenti forse mal digeriti.


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