Capaci, chi è l’ex poliziotto accusato dal pentito Riggio «Diceva: “Dobbiamo fare dei favori alla parte politica”»

«Lui mi faceva paura». Pietro Riggio non sa che l’amicizia con quell’ex poliziotto conosciuto nel ’98 durante la detenzione nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere lo porterà, di lì a poco, a temere per la sua vita. All’inizio quello non è che un detenuto come tanti altri. Se ne sta nella cella numero 9, insieme a un sovrintendente e a un ispettore della polizia, detenuti anche loro. Mentre Riggio si trova nella 13, a poca distanza da lui. Entrare in contatto è quasi inevitabile. «Con una scusa o con l’altra mi hanno coinvolto inizialmente come amicizia. Scambiavamo delle idee, delle cose, fino a quando il discorso non venne fuori. “A noi interessa che tu vieni a fare parte, diciamo, di una organizzazione”», gli dicono i vicini di cella, secondo il racconto del pentito. Tra tutti spicca proprio lui, quell’ex poliziotto che Riggio un anno fa tira fuori durante un interrogatorio con i pm di Caltanissetta, rivelando che avrebbe avuto un ruolo cruciale nella strage di Capaci. Sarebbe stato quell’ex poliziotto a mettere il tritolo nel canale sotto l’autostrada. «Ancora Brusca è convinto che il timer l’ha schiacciato lui». È solo una delle frasi con cui quell’ex agente, nell’ambiente conosciuto come il turco o lo zozzo, avrebbe impressionato Riggio.

Di lui, il pentito conserva un ricordo nitidissimo. «È uno alto, 1,85 circa, corporatura robusta però non è grosso. Ha i capelli lunghi neri. E porta sempre il sigaro, lo fuma, le dita delle mani sono lunghe e la stretta della mano molle. Ha una carnagione chiara, e ogni tanto alterna barba e pizzetto. Parla prettamente romano ma disse che era originario del Cilento – riferisce il collaboratore nisseno ai magistrati -. Da quello che so, per otto anni è stato al Sismi, però si è occupato sempre di lavori sporchi». A raccontare questo dettaglio a Riggio sarebbero stati proprio i compagni di cella dell’ex poliziotto. «Era un tipo operativo – dice ancora -. Per un periodo ha portato un cappello alla turca, un cappello rotondo di lana, che usano gli islamici». È questo il suo ritratto alla fine degli anni Novanta, a cavallo con l’inizio del Duemila: capelli lunghi neri e cappellino, barba e sigaro. Da qui, forse quel soprannome. «Non aveva problemi a dormire ovunque, anche nelle stazioni, non aveva problemi di niente. Non l’ho mai visto venire con una macchina propria – ricorda ancora -. Si faceva lasciare, poi lo riaccompagnavo io. Sempre alla stazione degli autobus o a quella dei treni».

Per qualche anno Riggio avrà a che fare con lui. È proprio l’ex poliziotto, nei suoi racconti, che «teneva sempre le fila», è il motore alla base dell’idea di coinvolgerlo in una pseudo associazione che «già esisteva da tempo». Con un ruolo ben preciso, sin da subito: «Io dovevo dare un contributo per quanto riguardava la ricerca dei latitanti e comunque mettermi a disposizione quando venivo scarcerato per degli aiuti logicistici nell’ambito della zona in cui mi trovavo, senza dirmi altro. Non era una questione di soldi comunque», racconta ancora il collaboratore. Non passa molto tempo perché Riggio veda tutto in maniera più chiara. Lo avrebbe capito soprattutto quando l’ex poliziotto gli avrebbe rivelato, seduti al tavolino di un bar nella centralissima via Rosso di San Secondo a Caltanissetta, che bisognava uccidere il giudice Leonardo Guarnotta. In un primo momento Riggio dice di aver temuto di dover agire in prima persona, ma non è così. «Mi chiedeva di fare da supporto nel momento successivo all’avvenimento, diciamo, nel tentativo di agguato, di poterlo recuperare in autostrada, di potergli offrire una casa per un riparo intanto nell’immediatezza dei fatti».

L’appuntamento sarebbe stato nell’area di sosta che ci si ritrova davanti appena usciti dalla galleria Tremonzelli, in direzione Caltanissetta. Da lì, prendendo per delle strade interne, sarebbero arrivati alla casetta rustica di suo padre. Prima contrada Susafa, poi contrada Tudia, fino alle campagne di Resuttano. «Mi diceva che dovevamo fare dei favori alla parte politica, che ce li chiedono perché se cadono i governi poi cadiamo anche noi, cade tutto». Sarebbe questo il motivo che spingerebbe l’associazione a uccidere Guarnotta. Un’associazione che avrebbe vantato amicizie e rapporti di un certo peso. Tra questi ci sarebbe, ad esempio, il suocero dell’ex poliziotto. È il padre della sua seconda moglie, uno che «faceva parte dei servizi libici in Italia, abitante a Catania». Potrebbe essere stato lui, quindi, a fare da tramite perché alla fase preparatoria dell’attentato di Capaci partecipasse insieme all’ex poliziotto anche una fantomatica donna dei servizi segreti libiciDettaglio, anche questo, raccontato da Riggio. In effetti, due anni fa è stato isolato un dna femminile su alcuni reperti ritrovati sul luogo della strage e analizzati a distanza di anni. Circostanza che ha fatto largo all’ipotesi che nel commando di morte di Capaci possa esserci stata, di fatto, anche una donna.

Potrebbe trattarsi della funzionaria dei servizi segreti libici di cui è stato raccontato a Riggio? O potrebbe essere stata la donna di cui ha parlato anche il pentito calabrese Nino Lo Giudice? Proprio lui ha parlato di una presenza femminile che agiva sempre in coppia con Giovanni Aiello, faccia da mostro, l’ex poliziotto della Mobile di Palermo vicino ai servizi segreti e al centro di casi oggi ancora insoluti, uno su tutti l’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio. È una faccia che non si dimentica in effetti, quella di Aiello, tanto che persino Riggio ne rimane impressionato quando tra il 2002 e il 2003 dice di averlo incontrato per la prima volta: «Si presenta come Filippo, lo vedo per la prima volta al bivio di Resuttano», è insieme all’ex poliziotto e a una donna. «Aveva la faccia tutta butterata, anche a guardarlo faceva un attimino… aveva come uno sfregio in faccia, faceva anche un po’ senso a guardarlo. Mi dice con la sua voce un po’ rauca: “Ascoltalo, perché lui veramente ti stima”, riferendosi all’ex poliziotto». Ci sarebbe anche lui, Aiello, invischiato quindi in quella strana associazione che vuole assoldare Riggio. E con loro anche un certo Nasser, «ex pugile egiziano, anche lui parte della congregazione».

Ma di tutti, sono solo la donna misteriosa e l’ex poliziotto che Riggio lega alla strage di Capaci. Colpisce che, cinque anni dopo l’attentato che uccide Falcone, la moglie e tre agenti di scorta, venga ritrovato in un appartamento di Roma affittato per anni a quello stesso ex poliziotto un mini-arsenale. È il 21 maggio 1997 e alla Digos della Capitale arriva una strana segnalazione da un ispettore della polizia in congedo: è lui che, dal ’91 fino a febbraio ’97, ha affittato quell’appartamento a un collega, l’ex poliziotto di Riggio. Quando l’ispettore ci rientra, due mesi dopo, scopre una busta di plastica con circa 450 cartucce calibro 22, un caricatore dello stesso calibro, una decina tra bossoli e ogive di calibro diverso, 137 cartelline modello 67 intestate alla questura. All’arrivo degli agenti salta fuori anche un involucro costituito da due composizioni cilindriche di cartone avvolte nella carta marrone chiaro che si usa per i pacchi, collegate a una sveglia e a un relè da alcuni fili elettrici di vario colore. Fili, a loro volta, collegati a due pezzi di ferro lineari, che avevano alle estremità dei tappi bianchi e due attacchi usati per la batteria di nove volts. Due candelotti chiusi dalle sezioni superiori di una bottiglia di plastica, con dentro del materiale granulare grigio-giallo.

Per spiegare tutte quelle munizioni, l’ex poliziotto racconta di averle regolarmente avute due anni prima da un gioielliere di Roma e un suo amico funzionario di polizia. La cessione sarebbe avvenuta all’interno del I Commissariato e l’ex poliziotto avrebbe poi dovuto occuparsi della distruzione di quel materiale, per ragioni di ufficio. Solo che non succede, le munizioni restano di fatto in suo possesso per anni a suo dire «per mera dimenticanza». E i candelotti invece? Racconta alla Digos che erano il frutto di un suo tentativo di creare un congegno elettrico per catalizzare, attraverso il calore, del concime chimico, così come gli era stato consigliato da un botanico conosciuto durante una fiera. L’esperimento però non gli sarebbe mai riuscito e quel materiale sarebbe rimasto dimenticato nel ripostiglio per almeno cinque anni. Fino al giorno di quella perquisizione. Durante la quale sembra che l’ex poliziotto si sia anche vantato di avere delle buone conoscenze in materia elettrico-fisica ed esplosiva, acquisite grazie al servizio militare svolto nel ’79 prima in una sezione separata dello Smipar di Pisa e poi al Comsubin a La Spezia. Intanto, oggi quell’ex poliziotto tirato in ballo da Pietro Riggio è indagato dalla procura di Caltanissetta per concorso in strage e associazione mafiosa.


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