La donna che ha denunciato la padrona di San Lorenzo Valeria Grasso contro la mafia dei Madonia: «Lo rifarei»

«Se lo rifarei? Anche subito». Valeria Grasso non ha dubbi. E ripensando al passato è certa che non avrebbe alcuna esitazione nel denunciare di nuovo quei criminali che tentano in tutti i modi di prendersi la sua vita. Anche se si chiamano Madonia. Comincia tutto da una palestra in quello che per tutti, a Palermo, è da sempre il regno della storica famiglia mafiosa. Separata dal marito e con tre figli piccoli a cui pensare, quell’attività è il punto da cui ripartire. Ma quella ripartenza, di lì a poco, subirà una brusca frenata. Succede quando «nella mia vita entra lo Stato». Attraverso agenti e funzionari che fanno irruzione in quella palestra, cominciando a mettere sigilli ovunque. Quel posto è riconducibile proprio a loro, ai boss di Resuttana-San Lorenzo e quindi va tutto sotto sequestro.

«Io ero all’oscuro che la nuda proprietà delle mura fosse della famiglia Madonia – racconta Valeria -. Da quel momento avrei dovuto pagare l’affitto al custode giudiziario. Ma i Madonia hanno cominciato la loro guerra, non accettavano quelle misure e pretendevano che io continuassi a pagare a loro il canone di locazione. Un pizzo a tutti gli effetti». Quella situazione la spaventa, quelle persone la preoccupano. «Mi sono ritrovata dentro a un incubo. Ero sola, impaurita, con tre figli piccoli. E quelli erano criminali veri, altro che le signore perbene che credevo di aver conosciuto». Tra loro c’è anche lei, Maria Angela Di Trapani, la donna boss, la padrona di San Lorenzo. Ma soprattutto la moglie di Salvino occhi di ghiaccio. È Salvo Madonia, che sposa all’Ucciardone il 23 maggio 1992, mentre Falcone salta in aria allo svincolo per Capaci insieme alla moglie e alla scorta.

È lei quella che regge le fila di tutto, quando il marito finisce in galera. Insieme a lei, a gestire uomini e affari ci sono alcuni fidati sodali. Esce per espiazione pena nel 2015, ma nel 2017 è di nuovo dentro col blitz Talea. L’omicidio di Valeria lo decide durante un colloquio in carcere col marito. «Per qualche periodo ho dovuto sottostare, poi ho cercato di dare l’attività in gestione sperando che finisse lì quella richiesta folle e che loro sparissero dalla mia vita. Invece, questi criminali sono tornati a cercarmi pretendendo che io continuassi a pagare loro il canone di locazione. Non li fermava niente, il carcere, le condanne, erano fuori da ogni ragione. Quindi ho iniziato a ribellarmi – racconta Valeria – e loro mi hanno proposto di andare a riscuotere io per conto loro dalla persona a cui avevo dato in gestione la palestra, un’altra follia. Da lì ho denunciato tutto e ho iniziato la mia collaborazione, tirando fuori da ogni possibile rischio il nuovo gestore».

«È iniziato un calvario, un percorso difficile, non tanto per la collaborazione, ma perché ero impreparata a quello che è venuto dopo. Come convivere con le minacce, per esempio. Denunci, collabori, li fai arrestare e condannare e pensi che sia finita lì, ma non torni mai alla tua vita, non sei più un cittadino normale. La mia condanna a morte la signora Madonia l’ha decisa andando a trovare il marito in carcere, durante un colloquio, è grazie alle intercettazioni che è emerso tutto. Se non ci fosse stata tutta l’attenzione che invece c’è stata, magari oggi quel piano di Maria Angela Madonia si sarebbe già compiuto e io non sarei qui». Valeria deve entrare nel programma di protezione testimoni. «Non so i dettagli. Ricordo che un giorno di otto anni fa ho ricevuto una telefonata: “Non si muova da dove si trova, stiamo venendo”. Erano i carabinieri. Sono arrivate un sacco di volanti in palestra e da lì è iniziato tutto. Nel giro di due ore mi hanno comunicato che dovevo lasciare subito la Sicilia. I miei figli erano piccoli, non capivano cosa stesse accadendo, vedevano la mamma che scappava sull’auto della polizia, sembravamo noi i ladri, vagli a spiegare tutto».

Ma, col tempo, Valeria lo fa. E da un trauma così grande nasce un rapporto che li unisce ancora di più. «Non è una cosa che puoi cancellare dalla tua vita, c’è e ci sarà sempre, è una cosa che ti segna – dice -. Come donna mi ha segnata moltissimo ma mi ha resa anche molto forte. Questa esperienza mi ha permesso di vivere in maniera ancora più forte anche l’amore per i miei figli, le mie scelte sono state condivise con loro, sono scelte che si portano avanti come famiglia, io questo percorso l’ho portato avanti coi miei figli. Certo, ho avuto paura e ho ancora paura di cosa poteva entrare un domani nella vita dei miei figli, i traumi rimangono. Però io oggi sono fiera di loro. La vita è dura, difficile, ma se siamo persone libere e ci possiamo guardare allo specchio allora ne vale la pena». Ma non è stato certo tutto in discesa, anzi. Entrare nel programma testimoni non è solo fare una valigia e lasciare la propria casa. Significa ricominciare da zero, in incognito, con la paura costante che il pericolo sia sempre lì, in attesa di te.

«Oggi si sono fatti dei passi avanti e sempre più persone decidono di denunciare, solo che poi dietro c’è tutta una parte burocratica di assistenza a persone e imprese che va ancora molto migliorata e il lavoro che si deve fare è ancora tanto.Lo Stato ci ha protetto ma tutto quello che era attorno non era ancora pronto per dare un’assistenza con meno traumi possibili», racconta Valeria. Che mette a confronto la posizione di una cittadina come lei, che si ritrova a cambiare vita e ricominciare segretamente altrove, con quella di altri collaboratori. Gli ex mafiosi. «In quel caso è un pentito che patteggia con lo Stato le sue informazioni al prezzo della libertà, il che per me è follia, ma comprendo che sia uno strumento che serve. Dall’altro lato c’è un normale cittadino alla prese con una scelta, quella di denunciare, che di eroico non ha niente, tutti dovrebbero agire così, ma è dura affrontare tutto quello che arriva dopo».

«La mafia è una realtà che c’è, che esiste, hanno strumenti forti, riescono sempre a riorganizzarsi – continua -. A noi gente perbene deve comunque interessare solo di fare il nostro dovere e di vivere bene, tranquilli e nella libertà. Ho sempre vissuto secondo questo principio, non mi sono mai piegata a nessuno. Io non sono la donna che combatte la mafia, sono una donna che combatte per la propria libertà. Combattere la mafia spetta ai magistrati e ai politici, a mio avviso, sono loro che possono sconfiggere questo sistema». Intanto, la sua vita adesso è altrove. Ma non perde occasione per tornare qui. «Palermo è nel mio cuore e qui torno spessissimo, mi do tantissimo per la mia città. Però devo dire che non mi manca, proprio perché ci vado quando voglio. Più che altro mi dispiace che se magari entro in qualche posto mi potrebbe capitare di incontrare qualcuno che ho fatto arrestare e questo mi dispiace. Col rito abbreviato certe persone invece di farsi vent’anni di carcere se ne sono fatti sei e questo un po’ mi sta stretto. Vorrei una legge che non faccia riti abbreviati, che non faccia sconti, se hai sbagliato devi pagare fino all’ultimo giorno. Anche perché criminali come questi quando escono non si ravvedono».

Anche se lei, malgrado tutto quello che ha passato, un po’ ci spera. «Magari accadesse! Cambiare è possibile, è quello che dico a tutti, specie ai ragazzi di oggi, a quelli più sfortunati a cui nessuno ha mai detto che ci possono essere altre strade, altre chance, e che rubare non è l’unica alternativa. Loro sono altre storie, sono vittime. Tutto il contrario i quei mafiosi che scelgono l’abbreviato – conclude -, che escono dopo pochi anni e che non sapranno mai chiedere scusa alle famiglie di chi hanno fatto ammazzare».


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