Via D’Amelio: l’ispettore Valenti e l’equivoco del falso nome «Io scambiato per un altro, sono sempre stato in buona fede»

«Io da qui non mi alzo finché non ho detto e chiarito tutto. Perché non lo supero un altro equivoco come quello di quattro anni fa». Lo dice con una voce rotta dal pianto Giampiero Valenti. Oggi ispettore superiore, 25 anni fa viene inserito anche lui nel pool di esperti e funzionari del gruppo Falcone-Borsellino per contribuire alle indagini sulle stragi del ’92 come informatico. Quattro anni fa viene indagato insieme ai colleghi dell’epoca Di Ganci, Militello e Guttadauro, che lui chiama «compagni di sventura», per concorso in calunnia: la procura di Caltanissetta li accusa di aver avuto un ruolo nella manipolazione del finto pentito Vincenzo Scarantino, contribuendo di fatto al clamoroso depistaggio delle indagini. La stessa accusa a cui devono rispondere i tre ex poliziotti a processo Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei

Sia Valenti che gli altri tre colleghi vengono definitivamente archiviati dalla procura nissena lo scorso febbraio. Un lieto fine che, però, non ha cancellato per Valenti l’incubo di quei quattro anni sotto inchiesta. «Mi nascondevo per la vergogna di cose che non ho fatto», dice oggi in aula. Scopre dell’inchiesta che lo coinvolge per caso, in maniera informale, quando rincontra un vecchio collega dell’epoca, l’ispettore Vincenzo Maniscaldi, che insieme all’ispettore Ricetta coordinava a suo dire le indagini del pool una volta che questo era stato ridimensionato a una quindicina di funzionari: «Ricordo che mi disse “ma sei stato tu a mettere in bocca queste cose a Scarantino?” – racconta il teste -. Non capii di cosa parlasse, ricordo che mi collegai sul web e il mio nome era dappertutto, ricordo che piansi, io autore del depistaggio». A tirarlo in ballo è lo stesso Scarantino. Dice che a imbeccarlo, tra gli altri, sarebbe stato anche Giampiero Valenti. Dopo lo choc iniziale per la notizia, Valenti inizia a ragionare e si convince che Scarantino abbia semplicemente sbagliato persona, che lo abbia confuso con un altro del gruppo, cioè col collega Giacomo Pietro Guttadauro detto Giampiero, poliziotto di fiducia di Arnaldo La Barbera e suo ex autista. Lo stesso poliziotto che, a detta di Scarantino, gli avrebbe rivelato che la polizia a Bellolampo aveva fatto esplodere una Fiat 126 per «testare l’esplosivo», poco prima della strage di via D’Amelio.

«Ci poteva stare, dopo tanti anni. Ma intanto, a causa di quell’equivoco…Lo so io il danno – fa una pausa, respira a fondo, poi si riprende -, io mi aspettavo che il collega Guttadauro si alzasse dalla sedia e andasse dai magistrati di Caltanissetta a togliermi da questi guai. Ma non l’ha mai fatto». Valenti resta convinto che si sia trattato di uno sbaglio di persona fino a quando, nel settembre 2018, si confida con un altro ex collega, Francesco Trippodo, che però gli racconta di aver subito anche lui quella stessa circostanza: «Mi disse che era successa la stessa cosa anche a lui, che un certo collega Giacalone, non ricordo il nome, andò da Candura spacciandosi per Trippodo – rivela -. Improvvisamente ho cominciato a non sentirlo più, ho smesso di colpo di pensare che Scarantino avesse fatto confusione coi nomi». Motivo per cui lui avrebbe poi deciso di non incontrare Guttadauro. «Dopo che sono stato indagato sono andato a letto ogni notte con questo pensiero, per quattro anni ho cercato di scavare nella mia memoria. Le risposte che ho dato in passato sono sempre state date in buona fede. Oggi parlo con l’esperienza attuale, non con quella di 25 anni fa – continua Valenti -. Ho rifiutato confronti con altri colleghi per poter raccontare i miei ricordi, io voglio restare con la mia testa, ho portato oggi qui la mia esperienza, perché non ho davvero nulla da temere».

C’è un altro nodo, infatti, che i magistrati gli chiedono oggi di ripercorre e chiarire. Ovvero suo ruolo rispetto alle attività di registrazione e ascolto delle intercettazioni di Scarantino, mentre si trovava (in regime di arresti domiciliari) con la sua famiglia sotto protezione nella casa di San Bartolomeo a Mare, dove Valenti nel ’95 è impiegato in quattro turni di servizio. «Non so nulla delle conversazioni di Scarantino, non so con chi parlasse. Mai saputo nulla delle attività di intercettazione, era Di Ganci che comunicava direttamente all’ufficio, magari ne parlava anche con me ma non c’era nulla di così particolare da restarmi nella memoria – spiega -. Io ricordo che quando finì l’attività di intercettazione ci chiamarono a firmare dei brogliacci, “firma, firma”, firmammo tutti. Oggi col senno di poi quei brogliacci li farei mangiare a qualcuno, su questo verbale che mi mostrate oggi c’è assolutamente la mia firma, ma io di quelle attività di intercettazione non ho mai saputo nulla. Di solito a firmare un brogliaccio è chi ha sentito le intercettazioni. Io non so cosa mi hanno fatto firmare», dice, in un misto di rabbia e impotenza. Quindi, ha firmato un documento senza leggerlo? Un documento d’intercettazione del ’95 della cui esistenza, tra l’altro, si è saputo solo pochi anni fa. «Probabilmente no, non l’ho letto. Non posso non fidarmi del collega che mi sta a fianco, cosa mi si può contestare, l’inesperienza? Come potevo pensare che il collega mi stava facendo firmare qualcosa che non avrei dovuto firmare? Mi sono sempre fidato e affidato ai miei colleghi e vi ricordo che oggi si parla di depistaggio, 25 anni fa no».

«Il 10 luglio ’95 io non ero a Imperia – prosegue -. Come fa a risultare che ero lì a fare questo verbale? Io non lo so, questa è la mia firma, ma io lì non c’ero. Mi assumo tutte le responsabilità del caso, anche di essere processato, ma io non ne so nulla di questo verbale, sono stato stupido io che non avevo alcuna esperienza. Perché un verbale così importante non lo firmano Ricerca o Maniscaldi che gestivano tutto e questo poteva essere motivo di pregio? Io nego assolutamente di essere stato in quel tribunale, a Imperia, a gestire quelle intercettazioni nei miei turni, non ho nemmeno memoria che quel registratore si trovasse in ufficio, se lo ricordassi lo direi, cosa devo nascondere? Lo dirò fino alla morte, lì non c’ero». All’epoca lui è il più alto in grado, ma ribadisce di non avere mai avuto l’incarico di comunicare con l’ufficio, «fino al giorno prima io mi occupavo di inserimenti di informatica. Non sono qui per puntare il dito contro nessuno, Di Ganci ha ricevuto disposizioni dall’ufficio, è lui che teneva i contatti, aveva un cellulare. Io, se proprio dovevo, comunicavo da una cabina telefonica. Non ho mai messo un dito su alcun registratore».

Lui, lo ribadisce più volte, nell’arco delle quasi cinque ore di esame di oggi, non avrebbe mai avuto a che fare con le intercettazioni di Scarantino. Mai gestite, mai registrate, mai ascoltate. L’unico coinvolgimento, sempre marginale a suo dire, avviene quando il collega Di Ganci gli avrebbe detto «fammi compagnia, vieni con me», e lo accompagna a interrompere l’intercettazione in corso perché Scarantino avrebbe dovuto parlare di lì a poco al telefono con i magistrati. «Non so se era lui che doveva parlare coi pm o viceversa, loro con lui», dice. Un passaggio anomalo, oggi più volte oggetto delle domande di magistrati, avvocati e presidente di corte, colpiti da questo dettaglio dell’interruzione della registrazione, di cui non esiste alcuna annotazione. «All’epoca, forse per l’inesperienza e perché non potevo immaginare cosa sarebbe successo oggi, non lo trovai anomalo». Intanto, resta il fatto che con quella interruzione alcuni dati potrebbero essere andati persi per sempre. 

Durante quei quattro turni di servizio per gestire Scarantino avviene anche il famoso viaggio da Imperia a Roma del collaboratore. «Ho cercato di ricordare tutto passo dopo passo, non ho nulla da nascondere – insiste -. Non mi sono mai lasciato condizionare da nessuno, ho scavato ogni episodio nella mia memoria e posso descrivere ogni passaggio per come l’ho vissuto. Compreso quel giorno del viaggio, non so in quanti eravamo ma se dovessi scommettere dire solo io e Di Ganci». Non ricorda bene la zona in cui arrivano, ci sono però molte macchine e una trentina di colleghi. «C’era la polizia, i magistrati, c’era un mondo, non ricordo se ci fossero anche Bo o La Barbera, davvero non lo so. Fuori eravamo in tanti». Quello è il giorno del confronto fra Scarantino e gli altri collaboratori. «Ricordo che avevo, come altri, la curiosità di vedere Scarantino parlare con gli altri collaboratori, ma non ci facevano partecipare, non era uno spettacolo da vedere al cinema – racconta -. C’era Cancemi, Di Matteo quello a cui hanno ammazzato il figlio (Santino ndr), un altro collaboratore credo di Altofonte (Gioacchino La Barbera ndr), di loro ho memoria, non so se ce n’erano anche altri».

I confronti avvengono tutti nell’arco di poche ore in una stanza. «Ho cercato di curiosare, anche solo per vederli in faccia, ma non mi è stato permesso, è accaduto tutto lì dentro – dice -. Ricordo benissimo lo stato d’animo di Scarantino, uscì da lì che era elettrizzato, pieno di sé, come se avesse avuto una discussione con qualcuno vantando quelle che erano le sue ragioni, me lo ricordo come se fosse ora, era incazzato ma pieno di sé. Di Ganci gli disse “Vincenzo l’importante è che tu hai detto tutta la verità, se l’hai detta non devi avere nessuna preoccupazione” – ricorda Valenti -. Scarantino non ha mai palesato alcuna incertezza con noi, non ho mai raccolto alcun commento da parte sua su una sua falsa collaborazione, non ha mai detto niente, per me era un collaboratore e basta, chi lo sapeva di tutto questo cataclisma?». Un altro nodo affrontato da magistrati e avvocati ruota ancora attorno a un ricordo molto preciso di Valenti, che però non corrisponde con altri elementi. Quell’unico interrogatorio di Scarantino a cui lui prende parte, con l’incarico di trascriverne la testimonianza. «Ero insieme alla dottoressa Annamaria Palma (oggi attualmente indagata dalla procura di Messina ndr) – dice -, fu un normalissimo interrogatorio: io ero lì che scrivevo, lei faceva le domande, Scarantino rispondeva. C’era, ma non sono sicuro, anche un piccolo registratore a cassetta». Su verbale però di quel giorno la firma è di un altro magistrato, Nino Di Matteo. Nessuna traccia della pm Palma. «Forse lui era in giro, ma lei c’era, me lo ricordo, non sono impazzito», ribadisce con forza il teste.


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