Brusca resterà in carcere, la Cassazione nega i domiciliari «Si ravvede uno che fa 140 omicidi? Paese di quaquaraquà»

Giovanni Brusca resterà in carcere. Così ha deciso la prima sezione penale della corte di Cassazione che, dopo un’intera giornata in camera di consiglio, ha rigettato la richiesta di arresti domiciliari avanzata dai legali del collaboratore di giustizia. In cella da 23 anni per la strage di Capaci e altri efferati delitti, incluso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia, aveva già chiesto, tramite gli avvocati, di avere concessi i domiciliari. Ricevendo però sempre esito negativo. L’ultimo, in ordine di tempo, lo scorso marzo da parte del tribunale di sorveglianza di Roma.

«Chiedo scusa e perdono ai familiari delle vittime, allo Stato e alla società civile, ritengo di doverlo fare». Esordiva così, solo otto mesi fa, l’ex boss di San Giuseppe Jato sentito al processo a carico dei tre ex funzionari del gruppo Falcone-Borsellino, accusati di aver avuto un ruolo nel depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Scuse arrivate dopo tanti, forse troppi anni e che non avevano mancato di sollevare polemiche e perplessità. Niente a che vedere con il moto popolare che ha sollevato la notizia della richiesta avanzata dai suoi legali, gli avvocati Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti, perché l’ex braccio destro di Totò Riina ottenesse i domiciliari. «Gli avvocati fanno il loro mestiere, è chiaro che fanno determinate richieste. Mi auguro che la Cassazione si pronunci per il no, se no veramente siamo nel paese dei quaquaraquà, è inaccettabile», il commento amaro, a poche ore dalla pronuncia della Cassazione, di Tina Montinaro a MeridioNews, vedova di Antonio Montinaro, uno degli agenti di scorta rimasto ucciso nella strage di Capaci.

«Brusca ha già avuto tantissimi benefici, non pensiamo che si sia davvero ravveduto, cosa significa questa parola quando si parla di Giovanni Brusca? Ma diciamo veramente o scherziamo? – insiste Montinaro -. Io penso che già lo Stato abbia dato tanto, con tutti questi personaggi come lui, che ha fatto 140 omicidi. Di pentimento non se ne parla neanche, quindi a chi la volete dare a bere quando dite che si è ravveduto? Veramente pensate che i famigliari delle vittime di mafia e gli italiani tutti sono così cretini? È inaccettabile una cosa del genere – lo ripete senza sosta -. È una mancanza di rispetto nei nostri confronti, da parte di chi sta prendendo certe decisione e da chi sta pensando di rimetterlo fuori». Il riferimento è al procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che, insieme alle autorità di pubblica sicurezza di Palermo e alla direzione del carcere romano di Rebibbia dov’è detenuto l’ex boss, aveva dato parere favorevole agli eventuali domiciliari e al suo ritorno in libertà.

Parere che, però, per Tina Montinaro rappresenta «una grave mancanza di rispetto del nostro dolore. Fare accadere una cosa del genere significherebbe che noi siamo solo quelli delle commemorazioni, ce li ritroviamo tutti qua, però poi non hanno rispetto del tuo dolore. E non va bene. Che messaggio si lancia a tutta l’Italia? Che poi dico…quante persone stanno in galera e magari si sono pentite amaramente di quello che hanno fatto e nessuno li calcola?». Rabbia, ma anche tanta lucidità nella riflessione di Tina Montinaro, che non si scompone. «Vuol dire che ci sono evidentemente interessi che sicuramente non riguardano una sola persona, quindi lui ha fatto le sue richieste e lo devono accontentare – ipotizza addirittura -. Mio marito non ha accettato compromessi, se voleva accettarne si sarebbe messo in malattia. Non ne hanno accettato tutti i morti di Palermo e questo non lo dobbiamo dimenticare. Non ci sono commenti, resta solo l’amaro in bocca. Abbiamo fatto tanto per cambiare le coscienze dei palermitani, andiamo sempre nelle scuole, ci mettiamo la faccia tutti i giorni per fare cambiare le cose, per dare un futuro diverso e questa è la risposta dello Stato. Lo stesso che invece di punire questa gente ha chiuso pure il carcere dell’Asinara, noi i nostri detenuti li trattiamo bene, questi almeno».

Più morbido e cauto invece chi sottolinea che «è scritto nella Costituzione che la pena deve tendere alla rieducazione», come osserva Giuseppe Di Lello, ex pm nel Maxiprocesso e nel pool antimafia insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il gruppo investigativo che rivoluzionò strategie e metodi di contrasto a Cosa nostra, portandola per la prima volta alla sbarra. «C’è sempre il 41 bis, poi, cui lui è sottoposto – ricorda Di Lello -. Finora non l’hanno derogata a nessuno la clausola del 41bis, fatta eccezione per Dell’Utri che stava molto male. In ogni caso, che esca a breve o fra pochi anni, credo che lui ormai sia fuorigioco». Grazie al suo status di collaboratore, infatti, la sua detenzione, prevista fino a 2022, potrebbe terminare addirittura a novembre 2021. Domiciliari negati a parte, insomma, fra due anni Giovanni Brusca potrebbe comunque essere rimesso in libertà, tra sconti, premi e benefici vari previsti dalla legge. «Non credo che il suo ritorno possa determinare nuovi equilibri, anche perché lui poi è un pentito, è visto con certi occhi – insiste intanto Di Lello -. Non credo che il suo ritorno in libertà possa accendere nuove guerre. L’unica cosa che può fare, quando esce, è nascondersi bene e non rompere più le scatole a nessuno».

Ma a sperare in questo esito c’era anche Giovanni Paparcuri, che ha affidato ai social un lungo post per spiegare la sua dura posizione: «Premesso che i collaboratori sono uno strumento molto prezioso e senza le loro dichiarazioni su alcune dinamiche, su alcuni fatti anche molto gravi, non si poteva e non si può far luce. Dei collaboratori non ho mai creduto al loro pentimento e mai ci crederò, al di là del coinvolgimento personale nella strage Chinnici», spiega lui che la violenza dell’ex boss l’ha vissuta sulla propria pelle. Ex autista di Falcone nei primi anni ’80, sopravvive alla strage in cui il 29 luglio ’83 perde la vita proprio l’inventore del pool antimafia, Rocco Chinnici. «Il collaboratore, sempre secondo me, si “pente” per paura, vendetta e convenienza – continua -. Paura del carcere a vita e paura che potrebbe essere ucciso dai propri avversari. Vendetta perché una volta passati dalla parte dello Stato possono appagare la loro sete di vendetta raccontando fatti e misfatti dei loro nemici. La convenienza è sotto gli occhi di tutti: benefici premiali per la loro collaborazione».

«Per quanto mi riguarda li farei marcire in galera per tutta la vita, al limite – prosegue -, i benefici li farei usufruire ai familiari, ma non a chi si è macchiato di reati molto gravi, quali, in questo caso centinaia di omicidi. Non credo assolutamente che Brusca si sia ravveduto, perché se realmente lo era, per rispetto di tutti quei morti ammazzati e dei loro familiari, né lui né i suoi legali dovevano presentare richiesta di concessione di arresti domiciliari, tanto tra un anno sarà in ogni caso un uomo libero». Non si fida, insomma, pur riconoscendo e ribadendo a più riprese la preziosità dei collaboratori di giustizia e l’importanza di quei benefici garantiti loro per legge. Benefici guadagnati, appunto, a partire proprio da quel pentimento e dalle sue rivelazioni, seppur spesso a singhiozzo.

«Io non ho mai avuto contrasti con nessuno, nemmeno per una multa di parcheggio abusivo. Per Riina io stravedevo, mi chiedevo “ma chi mi ci ha portato a tutto questo, a diventare un mostro solo perché credevo in lui“. Ma non ci pensavo a collaborare, non era nelle mie idee. Ma l’arresto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso», racconta oggi lui stesso tutte le volte che, interpellato in qualche processo, gliene viene data l’occasione. Un collaboratore sui generis, per così dire, verso il quale fino a qualche anno fa ha nutrito pesanti dubbi anche l’allora presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, prima di finire coinvolta nell’inchiesta su una presunta gestione illecita dei beni confiscati. «È assolutamente persona che rimane socialmente pericolosa e che sicuramente per quello che ha fatto, a prescindere dal fatto che lui si è dissociato dalla mafia, ha una sua pericolosità intrinseca elevatissima, perché una persona che riesce ad ammazzare un bambino che era suo figlioccio non lo ferma nessuno».

Nelle intercettazioni registrate nell’arco del 2015 ed entrate nel processo a suo carico che si sta celebrando a Caltanissetta, l’ex giudice si dimostra molto dubbiosa e impaurita nei confronti di un personaggio che «non è uno così, è uno brutto, che ce l’ha con me in maniera proprio dichiarata». Uno che tra legge Gozzini, per esempio, e altri benefici, potrebbe uscire a breve dal carcere, a prescindere dai domiciliari. «Altri due giorni e questo va girando, con tutti i sacri sentimenti». Perché, allora, disturbare il cane che dorme? «Tanto, ne ha tante cose Brusca, quelle altre quattro in più che so io di Piana…pazienza», diceva ancora l’ex presidente, alludendo ad alcuni beni che sospettava fossero riconducibili all’ex boss di San Giuseppe Jato e di cui, per timore, non avrebbe all’epoca fatto parola ai colleghi della procura.


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