A Villa Zito le opere dell’artista Lina Fucà «Le relazioni umane sono viaggi imperfetti»

In occasione di Intermezzo 2019, rassegna di videoarte curata da Agata Polizzi per la Fondazione Sicilia presso Villa Zito, sarà visitabile fino al sei novembre la mostra dedicata a Lina Fucà, performer e artista torinese di origine siciliana. Inevitabilmente, dunque, i suoi lavori risentono di questa discrasia tra il ricordo dell’Isola e la vita altrove. Lo si nota ad esempio sui due video proposti dall’artista, Ti ho pensata sempre e Unopertreugualesette, che scorrono sulle pareti della stanza.

«Mi sento assolutamente siciliana – racconta Fuca – sono figlia di emigranti, ho sempre sentito quest’isola come la mia casa. Certamente la narrazione del mare appartiene a tutti i siciliani, compresi i miei genitori, che giunsero a Torino dopo un periodo trascorso in Germania, andando a lavorare per la Fiat. Io oggi vivo ancora a Torino e insegno da dodici anni in una scuola media di periferia, ma scendo e scendevo in Sicilia tutte le estati, passando intere settimane con la mia vecchia nonna, che parlava solo siciliano».

Le opere di Fucà sono dirette, ma l’artista ha scelto ieri di commentarle con i visitatori all’inaugurazione della mostra a lei dedicata. Il primo lavoro è un viaggio nel passato, un ritorno alle radici di un’esistenza relazionale sospesa tra ieri ed oggi, che riporta la memoria ai tempi dell’Italia industriale, una illusione del benessere che il video ci mostra in tutta la propria agrodolce realtà. Ti ho pensata sempre è un video del lavoro compiuto dall’artista nel ripulire la vecchia casa, disabitata da 30 anni, in cui viveva con i genitori negli anni ’80, mescolando le immagini dei quattro momenti contemporanei di ripulitura con un testo dedicato proprio alla memoria di quei giorni, riferita a quel luogo, ricostruendo momenti scolpiti nella memoria.

«Avevo pensato spesso alla cosa dove sono nata, a Torino – commenta Fuca – quella dove abitavo con i miei genitori e che ci venne espropriata dal Comune negli anni ’80 per essere ristrutturata. Era una casa tipica della Torino industriale, con piccolissimi bagni. Senza acqua calda, senza riscaldamento, che nella mia mente è rimasta come un luogo magico. Ero andata via da lì a dieci anni, ma quella era sempre rimasta la mia casa. E per una coincidenza incredibile, dopo un lavoro a Cuba per la Fondazione Merz, sono rientrata proprio nello stabile in cui abitavo. Dopo 30 anni, rientrare lì dentro è stato commovente». 

Il rischio di farsi sopraffare dal ricordo è forte. Ma Fucà riesce a restare lucida. «Era un luogo rimasto inviolato – continua – nonostante la polvere ed i calcinacci non c’erano impronte all’interno, ma c’erano ancora dettagli, come la tappezzeria o le bottiglie d’olio lasciate da mio padre negli armadi a muro. Era come ritornare indietro nel tempo e ho chiesto la possibilità di rientrare per riappropriarmi dello spazio rendendolo un ricordo vivo, soprattutto la prima stanza, dove ogni tanto mio padre montava il vecchio proiettore super8 per farci vedere Per un Pugno di Dollari, l’unico film in suo possesso. Quando ho scritto il testo che segue le immagini, ho sentito i miei ricordi tornare in vita. Mi sono riappropriata delle mia memoria, delle sensazioni legate a mio padre, di un frangente di vita che avevo perso anche grazie ai ricordi olfattivi».

Di diverso tenore è invece Unopertreugualesette, sistemato sui lati della stanza e che mostra quattro momenti diversi in cui l’artista ha chiesto ad altrettante donne straniere, provenienti da paesi molto lontani dal nostro, geograficamente e culturalmente, di vestirla come loro, di trasformarla in loro. Sono estratti poi ampi di un lavoro su 15 donne da ogni parte del mondo, anche italiane ed europee, che hanno trasformato la performer secondo le proprie usanze e consuetudini. Per Palermo, la Fucà ha scelto di portare quei video che trattano di un profondo scambio culturale. «Il nome è una equazione errata – spiega l’artista torinese – esattamente come lo sono i rapporti umani: imperfetti viaggi alla scoperta delle persone. Ho scelto persone che provengono da luoghi diversi, da posti lontani, ma vivono a tutte a Torino, vicino a me. Io vivo e insegno in una periferia, un tempo abitata da meridionali e ora da stranieri, sono la maestra di alcuni dei loro figli in una scuola profondamente multiculturale».

E mentre procedono in sottofondo le immagini delle vestizioni compiute dalle quattro donne, Fucà continua a narrare il proprio lavoro. «Queste persone mi hanno aperto le loro case – dice ancora – mostrandomi luoghi estremamente intimi e personali scegliendo autonomamente gli abiti da farmi indossare. Io mi sono limitata a lasciarmi plasmare da loro creando delle performance a singolo take evitando qualsiasi costruzione, limitandomi poi a rimontare i video tre volte aumentando esponenzialmente la velocità della vestizione per coglierne i passaggi ma anche l’immediatezza della trasformazione. Ho scelto di usare video privi di audio per tranquillizzare le donne, ma anche per riprendere la tradizione del film muto, nel quale i gesti vengono amplificati dalla mancanza delle parole facendo risaltare fuori l’intimità e la complicità dei movimenti. Ero curiosa di entrare nella vita delle persone superando la superficialità dei rapporti formali e certamente difficile è l’imbarazzo nella manipolazione del corpo mentre mi vestivano e truccavano, una condizione legata anche alla cultura e alla religione, che spesso determinano il rapporto con il corpo e i tabù ad esso legati».


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