Appello trattativa, in aula il pentito catanese Squillaci «Dell’Utri rivelò ai Graviano dov’era il covo di Contorno»

I grandi rapporti di amicizia tra i Graviano e Marcello Dell’Utri. La soffiata di quest’ultimo ai fratelli sulla presenza di Totuccio Contorno a Roma, appresa da fonti interne ai servizi segreti deviati, per farlo uccidere. I telegrammi che Vittorio Mangano avrebbe scritto, giorno dopo giorno, a Silvio Berlusconi durante la sua detenzione a Pianosa, che però gli tornavano indietro. E quell’ex premier che era l‘unico a poter aiutare i mafiosi. Sono tante le cose raccontate oggi dal collaboratore di giustizia catanese Francesco SquillaciMartiddina, sentito al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, in video collegamento dal carcere milanese di Opera. Detenuto da 26 anni, sconta un ergastolo per l’omicidio dell’ispettore di Catania Giovanni Lizzio. Arrestato insieme al padre, finisce in manette dopo circa dieci mesi di latitanza. Si è assunto la responsabilità di 14 omicidi «di cui nessuno aveva mai parlato». La sua è una famiglia mafiosa di vecchia data, prima di lui a tracciare il percorso ci sono il padre e il nonno, che entrano però dentro Cosa nostra in maniera inusuale.

«Io vengo da una famiglia normale – racconta il pentito -. Mio nonno sin dagli anni ’50 aveva un frantoio per le olive, si fece un impero. Io sono cresciuto fino all’età di tredici anni in una famiglia normale. Nell’84-85 siamo stati sottoposti a estorsioni e mio padre, invece di denunciare, conobbe un uomo che fece cessare l’estorsione ma che pagammo a caro prezzo: mio padre fu costretto, e persino io ragazzino, a gestire la latitanza di un boss. Ho cominciato a respirare aria di mafia quindi sin dai 15-16 anni». Ha rapporti costanti con i Santapaola di Catania, accompagnando il padre dai boss dell’epoca. Cosa nostra catanese, nei suoi racconti, è diversa da quella palermitana. Lì la famiglia è una sola e il capofamiglia è Benedetto Santapaola. Poi ci sarebbero stati dei gruppi affiliati («che non erano Cosa nostra»), ma alla guida di tutto doveva esserci una sola famiglia. 

Storico rivale della famiglia dei Santapaola è Santo Mazzei, a capo del clan dei carcagnusi. «Totò Riina voleva fare un rimpasto con Cosa nostra catanese, escludendo però Santapaola e includendo invece Mazzei», riferisce ancora il collaboratore, sentito oggi come teste assistito. «Prima delle stragi di Palermo i rapporti erano più che ottimi, concretizzati già negli anni ’80 con la strage della circonvallazione – continua -. Negli anni i rapporti diventano sempre più forti. Appena si decide che devono morire i giudici palermitani, Benedetto Santapaola inizia ad allontanarsi da questa strategia, non si presentò neppure a una riunione con tutti i capi provincia della Sicilia organizzata proprio per discutere della morte di Falcone e Borsellino». Morte «voluta da importanti personaggi politici che oggi non ci sono più. Ci sono nomi che mi ha fatto Sangiorgi e anche Galea che oggi sarebbe anche superfluo dire, nomi come quello di Andreotti, anche se non posso dire che lui abbia ordinato le stragi». Quali sarebbero gli altri nomi? «Gaetano Sangiorgi era pentito di non essersi pentito, era il 2007-08, diceva che era tardi ormai. Mi diceva che Andreotti era molto vicino al contesto di Cosa nostra palermitana e non soltanto. Di più al momento non mi sovviene niente».

Intanto, Santapaola era convintissimo che quella degli attentati sarebbe stata una mossa autodistruttiva, «era contrario a fare delle stragi per via soprattutto delle sue importanti connivenze col mondo politico e istituzionale – dice ancora Squillaci -. Quindi declinò quell’invito». Tutte circostanze che lui apprende direttamente da un altro sodale della famiglia, Eugenio Galea: ne parlano nel ’95 mentre si trovano insieme nel carcere di Catania, e lui racconta di aver partecipato a quella riunione al posto di Santapaola. «Galea era un narciso. Anche io lo sono stato durante la mia carcerazione. Lui mi diceva la verità prima di tutto perché un uomo d’onore non può mentire a un altro uomo d’onore – spiega -. All’epoca lui era rappresentante provinciale, nulla fa pensare che mi abbia raccontato delle bugie. Lui ha veramente partecipato a quella riunione». Nella quale «Riina è convintissimo che dopo la morte di Falcone lo Stato scenderà a patti con Cosa nostra catanese, che aveva in mano parte della politica. Era sicurissimo che avrebbe vinto, perché una parte della politica aveva garantito e promesso che sarebbe andato tutto liscio come l’olio dopo la morte di questi giudici. C’era una parte dello Stato connivente con Cosa nostra che la rassicurava». 

«Alla luce dell’arroganza tipica dell’uomo d’onore, posso dire che io, insieme ad altri, ho puntato su questa strage perché convinto che l’essere mafioso fosse una potenza di cui vantarsi. Oggi dico che all’epoca ero un ragazzo di 20 anni e, guidato solo dall’ignoranza, ho brindato a questo eccidio, e oggi me ne vergogno». L’unico a essere scontento sembra essere Santapaola, che da quel momento si allontana anche dalla provincia di Catania. A rendere sicuri tutti gli altri, invece, ci sarebbero le amicizie particolari con la mobile e la Dia catanesi. «Con la strage di Capaci cambia tutto – torna a dire -. A Benedetto Santapaola viene proposto dai corleonesi di uccidere Lizzio, era un metterlo alla prova, uccidere uno degli ispettori più scomodi della mobile di Catania, dava la caccia ai latitanti». 

Quindi, è Cosa nostra palermitana a chiedere l’omicidio di Lizzio? «No, i corleonesi volevano solo l’uccisione di qualche uomo delle istituzioni. Volere poi accontentato da Santapaola». Tutti discorsi che il collaboratore apprenderebbe un mese prima del fatto di sangue, avvenuto a luglio ’92. «U zio ha detto che dobbiamo ammazzare all’ispettore Lizzio», riferiva il padre a Squillaci. U zio è Nitto Santapola. Che voleva, dal canto suo, far capire che Cosa nostra palermitana e catanese fossero ancora una cosa sola. «Lizzio viene ucciso perché era uno scomodo e usava metodi poco ortodossi, fu scelto come capo espiatorio. L’ho ucciso io personalmente il 27 luglio del 1992». Fatto per il quale viene raggiunto da richiesta di custodia cautelare nel 2007 insieme ad altri sodali, ma è lui l’unico che finisce condannato a 30 anni, assolti tutti gli altri.

Dopo quell’omicidio, «Cosa nostra catanese può finalmente togliersi tanti sassolini dalla scarpa». I favori tra Cosa nostra palermitana e quella catanese sembrerebbero costanti, a sentire Squillaci. Specie prima delle stragi del ’92. «L’uccisione del generale Dalla Chiesa nasce anche per fare un favore agli imprenditori catanesi Costanzo, che avevano conoscenze politiche importanti. Carmelo Costanzo era anche grande amico di Santapaola, era uno che aspirava a diventare uomo d’onore. Disse a Santapaola che se lo avesse affiliato, lui avrebbe regalato alla cosca un miliardo di lire». Nel racconto di oggi del collaboratore, Dalla Chiesa avrebbe messo all’epoca gli occhi anche sulla famiglia Costanzo, motivo che spinse pure Cosa nostra catanese a propendere per la strage del 3 settembre ’82.

«Tutta Cosa nostra siciliana doveva dare i suoi voti al partito di Silvio Berlusconi, Forza Italia – racconta poi il collaboratore, passando alla politica -. Dentro al carcere di Bicocca scoppiò un applauso alla notizia della vittoria, perché si pensava che Silvio Berlusconi sarebbe stato quello che avrebbe aiutato i detenuti cambiando quella legge. Era per noi quello che avrebbe potuto aggiustare la giustizia in Italia, facevamo il tifo per lui come allo stadio. Un primo segnale ci fu: nell’estate del ’94 fu emanato un decreto legge svuota-carceri però prontamente bloccato dal ministro dell’Interno di allora, Roberto Maroni. Si diceva intanto che lui, Berlusconi, era la persona che doveva arrivare a tutti i mafiosi», racconta oggi, parlando dell’ex premier.

«Mio padre fu portato nel ’95 a Pianosa, ci resta circa un anno. Mi raccontò che si ritrovò insieme a Vittorio Mangano, uno molto vicino a Berlusconi, e che questo scriveva telegrammi a Berlusconi, gli chiedeva aiuto per non essere più massacrato, solo che tornavano tutti indietro e lui poi li stracciava. La polizia giudiziaria, leggendo il suo nome e cognome e l’indirizzo di casa, non li faceva nemmeno partire. A scriverli era, sotto dettatura, mio padre stesso, perché Mangano aveva dei problemi alla vista. Lamentava sempre le stesse cose: che stava male, che lo stavano facendo morire, che il 41 bis era durissimo, chiedeva di mandare qualcuno a fare un’ispezione. Mangano gli diceva che Berlusconi era l’unica persona che poteva aiutare i mafiosi. Dico queste cose adesso perché ci sto riflettendo ora. Durante il carcere mio padre mi ha riferito tante cose importanti, circostanze a cui sto ripensando ora».

In carcere a Spoleto nel ’98, invece, a prendersi cura di suo padre ci sono anche i fratelli Graviano. «Lì nasce un’amicizia, una fiducia, mentre i Santapaola erano passati per traditori ormai. C’era anche dietro un secondo fine, quello di creare nuove alleanze. Mio padre mi ha detto che era orgoglioso di avere conosciuto Filippo e Giuseppe Graviano, persone molto educate a livello di detenzione, si occupavano di lui quando aveva delle necessità legate al suo stato di salute, lo accompagnavano in doccia e facevano per lui le pulizie. So – continua a dire – che gli fecero una confidenza: i fratelli avevano individuato il posto in cui era sotto protezione il collaboratore di giustizia Totuccio Contorno a Roma, ma non erano riusciti a ucciderlo per poco, erano amareggiati perché avevano avuto informazioni importantissime, che lui forse aveva tentato di uccidere un parente. Mio padre mi parlò di Marcello Dell’Utri, era quello che attraverso servizi segreti deviati aveva dato questa informazione su dove fosse Contorno. I Graviano e Dell’Utri avevano un’amicizia intima, era un loro amico importantissimo». Ma perché questi legami fra Dell’Utri e i servizi segreti deviati? Qual era all’epoca il suo ruolo? «Non  lo so, penso in quanto uomo politico».

«Berlusconi ha provato a sistemare il sistema carcerario e della giustizia. I segnali arrivavano da qualche parte – dice – e se ne parlava non solo tra chi era al 41 bis, ma anche tra quelli che erano stati più fortunati ed erano in regime normale. Tutti erano favorevoli a far salire Berlusconi, tutt’oggi c’è ancora gente letteralmente innamorata di lui, di Silvio Berlusconi». Il padre sta al 41 bis dal maggio ’95 all’estate del 2005: «Quello di Pianosa era diverso da quello delle altre città – racconta il figlio -. Nel periodo estivo, per il sovraffollamento, la cella si divide con altri detenuti. Mio padre ha conosciuto molti capomafia. Ma ha potuto relazionarsi in modo più libero nel carcere di Spoleto, mafiosi con mafiosi».

Francesco Squillaci, invece, in regime di 41 bis non ci finisce mai. E questo gli permette di «intrattenere rapporti con molti uomini d’onore, non solo catanesi. Anche all’interno del carcere di Opera». In carcere si parla di molte cose, tra uomini d’onore, anche della possibilità avallata da Provenzano (ancora latitante all’epoca) di dissociarsi da Cosa nostra «per risparmiarsi il 41 bis e potersi fare un carcere più dignitoso. So – racconta sempre il collaboratore – che Pietro Aglieri era d’accordo, così pure Pippo Calò e Piddu Madonia. Tutti quelli vicini a Provenzano erano quelli che potevano dissociarsi, i corleonesi invece erano in disaccordo, nacquero molti discorsi anche in carcere, si sono spattati su questo pensiero». Alla fine quella che si era paventata come una dissociazione di massa non avvenne mai, ci furono solo casi individuali. 


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