Mafia, la condanna dell’arcivescovo Lorefice «Fuori da Chiesa perché al servizio di morte»

«Per tutti c’è la possibilità di cambiamento di vita. Ma chi è mafioso deve sapere che si autoesclude dalla Chiesa non perché ci sia una scomunica dall’alto, ma perché non vive secondo quella che è l’appartenenza a quel vangelo per cui la nostra esistenza sia al servizio della vita e non della morte». Parole, quello dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, che rilanciano il messaggio di Papa Francesco durante la sua recente visita nel capoluogo siciliano quando, rivolgendosi ai mafiosi, disse «convertitevi». Come il grido di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi ad Agrigento nel 1993. Mafiosi e conversione, ma anche l’atteggiamento che la Chiesa e i cristiani hanno nei confronti di Cosa Nostra sono proprio gli argomenti al centro dell’incontro pubblico Rompere il silenzio con parole nostre organizzato ieri dall’Istituto Arrupe e Aggiornamenti Sociali a Palermo, e ispirato da due articoli pubblicati sulla rivista Aggiornamenti sociali di Vincenzo Ceruso, sulla figura di padre Pino Puglisi, e di Rocco Gumina sulla Lettera Convertitevi, dei vescovi di Sicilia.

«La presentazione degli articoli serve per stimolare un dibattito su un tema che lo stesso Papa Francesco quando è venuto qui ha riproposto – spiega la direttrice del centro Nicoletta Purpura – Un tema che a 25 anni dalla morte di don Pino Puglisi, dall’anatema di san Giovanni Paolo II e dalle stragi del ’92 è ancora vivo. Cosa nostra strumentalizza ancora oggi la religione per i propri fini. Il tema è discutere di come il singolo cittadino e la comunità possano effettivamente agire nel contrasto alla criminalità anche nella quotidianità permeata ancora oggi da atteggiamenti mafiosi». A farle eco è ancora Lorefice che, durante l’incontro, ha ricordato come la «presenza di Papa Francesco senza dubbio sia stata importante non solo per il momento celebrativo, ma anche per il segno preciso che ha lasciato. E se Pino Puglisi è un martire della fede senza dubbio è anche un martire della giustizia – ha aggiunto il presule -, e penso che oggi più che mai il suo sia un messaggio così nitido, bello, che può arrivare anche alla nostra Chiesa». 

Proprio sul rapporto tra legalità e comunità per il presidente di Libera don Luigi Ciotti «bisogna riconoscere che nel Paese ci sono ancora delle fragilità, delle contraddizioni ma è profondamente cambiato il contesto. Devo dire che Giovanni Paolo II e Papa Francesco non l’hanno mandato a dire, anche per scuotere le varie comunità e assumersi la loro parte di responsabilità. Una Chiesa che vuole esserci – ha aggiunto -, che vuole fare la propria parte deve essere un impegno di tutti». Un Paese, il nostro, dilaniato dai conflitti sociali che rischia, tuttavia, di scaricare le tensioni proprio sugli ultimi, sui più deboli. Come i migranti, oggetto di una campagna sui cui soffiano venti discriminatori, alimentati da un governo che non fa mistero delle proprie posizioni, al punto da spingere il presidente di Libera ad affermare che «c’è un’emorragia di umanità nel nostro Paese ma anche un’emorragia di memoria. Ci siamo dimenticati le nostre storie di migranti. Questa è una società che rischia di suicidarsi se non mette testa al problema delle politiche per i migranti. Non è semplice né facile – ha concluso – però la speranza non è un reato e quindi l’immigrazione non può essere un reato».


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