Omicidio Felice Orlando, i ricordi sbiaditi della vedova «I Lo Piccolo? Tutti conoscevano quel nome allo Zen»

«Mi era sembrato sempre normale, ma con me lui non parlava mai di niente». Sembra un rapporto fatto di poche parole, quello tra Rosalia Mercadante e Felice Orlando. E anche adesso, a distanza di quasi 20 anni da quel 17 novembre 1999, le parole e i ricordi sono ridotti davvero all’osso. Persino di quel giorno, quello in cui lui viene ucciso con undici colpi di pistola davanti alla macelleria in cui lavora allo Zen 2. La vedova ha ripercorso quella giornata e i mesi precedenti al delitto davanti ai giudici della seconda corte d’assise, dove si sta celebrando il processo a carico del 57enne Gaspare Di Maggio, di Cinisi, e il 62enne Vincenzo Pipitone, di Torretta, accusati di aver fatto parte del commando che quella sera uccise il macellaio punito da Cosa nostra.

Punito perché, sulla base di quanto raccolto già con le prime indagini e successivamente grazie al racconto di alcuni pentiti, si era messo in testa di eliminare Sandro Lo Piccolo, figlio dello storico boss del mandamento di San Lorenzo, Salvatore Lo Piccolo detto il barone, per avere un controllo incontrastato sul territorio dello Zen. Un’idea messa a tacere sul nascere. Rosalia Mercadante vede il marito vivo per l’ultima volta a ora di pranzo: sono a casa insieme, ma il tempo di un pasto veloce, e poi lui esce di nuovo per andare in macelleria a lavorare. Sono sposati dall’82 e vivono da sempre a casa della suocera, proprio lì, a San Filippo Neri. Solo dopo il lutto la donna decide di cambiare aria, andando a vivere a Sferracavallo dalla madre con i figli Pietro e Davide. «Non ricordo i suoi orari. Quel giorno io sono andata in chiesa, poi sono passata dalla macelleria e poi me ne sono andata a casa, non ricordo nemmeno se lui fosse dentro il negozio o meno». Quando la avvisano di quello che è successo, si precipita sul posto: «C’era tantissima confusione, un sacco di gente, e polizia e carabinieri che mi hanno presa e portata in una delle loro auto dicendomi che dovevo andare con loro».

Ma sono tanti i ricordi sbiaditi della signora, dopo 20 anni, o i dettagli che ammette di non aver mai conosciuto. Racconta che suo marito aveva precedenti, ma non sa essere specifica, «forse per droga, non lo so». E i Lo Piccolo, mafiosi del luogo, li conosceva, ne parlava mai? «Nella zona li conoscevamo tutti questi nomi, quindi penso che li conoscesse anche lui». Ma non sa in che modo, oltre non sa andare. Persino su quel lavoro alla macelleria la signora solleva non pochi dubbi. «Mio marito era un piccolo appaltatore edile, lavoricchiava da solo». Il giorno dell’omicidio dichiara che suo marito lavorava per una ditta di autotrasporti, la Genovese, di cui però adesso non ricorda granché. E poi c’è proprio la macelleria: «Aveva preso questo posto e ogni tanto anche io andavo là di mattina, dopo aver lasciato i bambini a scuola. Ci lavorava da poco tempo, nemmeno sei mesi credo, io davo una mano come cassiera». Ma non sa neppure dire, oggi, se lui fosse un semplice dipendente o se avesse preso in carico la gestione dell’attività. «Macelleria Vetrano» recita l’insegna, ed è davanti a quel cartello, appena all’ingresso del negozio, che Orlando viene raggiunto dai primi proiettili sparati dietro di lui.

«All’inizio è stato colpito alle spalle, poi verosimilmente si è girato, infatti sul suo corpo sono rimasti segni di difesa – ripercorre Leoluca Rocché, all’epoca alla Mobile di Palermo, tra i primi a indagare sul delitto -. Degli undici colpi solo uno è stato mortale, quello che gli ha attraversato un polmone e il fegato, mentre gli altri non avevano attinto organi vitali». Ci si concentra subito sulla vittima: chi è, cosa fa, chi frequenta, a chi telefona. I suoi tabulati però non fanno emerge nulla di significativo. Le indagini procedono spedite per diversi mesi prima che irrompano i collaboratori con le loro dichiarazioni, gettando un po’ di luce sui contorno della vicenda. «Pensavamo dall’inizio che potessero entrarci qualcosa i Lo Piccolo, all’epoca erano capi del mandamento in cui ricadeva quella zona, lo Zen». La dinamica dell’agguato, però, rivela da subito qualcosa. «A sparare dovevano essere stati almeno in due, a giudicare dalla velocità dei colpi sparati da distanza ravvicinata, e un terzo che aveva fatto d’appoggio». Non trovano però nessun bossolo a terra. Solo quelli rimasti nel corpo di Orlando. Che non è morto subito.

Prima c’è stata una corsa disperata a Villa Sofia. «Quando sono arrivato al pronto soccorso era ancora vivo, ricordo che il medico però disse subito che non c’erano molte speranze – racconta infine anche l’ispettore di polizia giudiziaria Vincenzo Bruno -. Si trattava di Felice Orlando, hanno tentato di salvarlo, ma è morto poco dopo. Il medico legale ci ha poi consegnato tutti gli oggetti che aveva addosso nel momento dell’agguato, e anche un’ogiva che era stata estratta dal suo corpo». Il processo proseguirà a febbraio e tra i testimoni chiamati sul banco dal pubblico ministero Roberto Tartaglia ci sarà anche la nipote della vittima, che il giorno dell’omicidio era anche lei alla macelleria e vide alcuni particolari dell’agguato


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