Caso Fragalà, i dubbi sul pentito chiave «Chiarello mente, persona ca un serbe»

«Persona ca un serbe». Lo dice a voce bassa, ma non troppo distante dal microfono perché non si senta. E anzi risuona forte e chiaro nell’aula della prima corte d’assise di Palermo, dove i giudici stanno ascoltando la testimonianza di Marcello Di Giacomo, in video collegamento dal carcere di Siracusa dove sta scontando una condanna a otto anni e otto mesi per 416 bis, confermata dalla corte d’appello nel 2017. Quella frase è diretta a Francesco Chiarello, il collaboratore di giustizia che ha scoperchiato il vaso di Pandora e fatto nomi e cognomi che hanno portato al processo che si celebra oggi per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. Secondo il pentito, Di Giacomo gli avrebbe raccontato alcuni dettagli dell’omicidio del fratello Giuseppe Di Giacomo. Circostanza che, però, l’uomo, ascoltato come teste assistito, nega perentoriamente. «Non so molto di quello che ha detto Chiarello e delle bugie nei mie confronti. Io ero in isolamento quando ci siamo trovati tutti e due al Pagliarelli, e in ogni caso escludo di aver parlato di fatti così privati come l’omicidio di mio fratello, sono cose personali e non le dico certo a uno che nemmeno conosco».

Marcello di Giacomo trascorre nel 2014 un mese e venti giorni nel carcere palermitano. In quel periodo c’è anche Chiarello, ma a detta del teste i due non si incontrano, non subito almeno, visto il periodo di Di Giacomo in isolamento. E dopo? « Nel piano ero solo, con Chiarello non abbiamo mai avuto a che dire, può essere che nella confusione me l’hanno presentato, che l’ho conosciuto di vista, ma niente di più. Io stavo al terzo Scirocco, mi pare, dentro al carcere – dice -. Io soffro un poco con la testa ogni tanto, un po’ di amnesia, ero in quel piano ma non ricordo con chi ero in cella, può essere che con Chiarello ci siamo incontrato in saletta colloqui, non lo so. E ho ricevuto tanti abbracci, non ricordo se ce ne sono stati anche con lui». Prima di questa breve parentesi, Di Giacomo è sicuro di non aver mai incontrato Francesco Chiarello. «Non lo avevo mai visto prima – ribadisce -. Chiarello si è inventato tutto questo perché vuole essere credibile in certe situazioni. Si è accanito sopra di me, è normale che ho ancora rabbia verso questa persona. Ma un ci cunviene. Io vi sto dicendo tutto. Come ho fatto nel mio processo».

Oltre a Marcello, in carcere, e a Giuseppe, ucciso da un killer ancora senza nome, c’è anche un terzo fratello, Giovanni Di Giacomo, ex padrino di Porta Nuova in carcere dal 1983 al ’90 e poi di nuovo dal ’91 ad oggi. Ergastolano condannato in via definitiva per 416 bis, detenuto a Viterbo, viene sentito anche lui in aula in qualità di testimone assistito. «Non mi sono mai informato con mio fratello Giuseppe sul delitto Fragalà, cioè proprio non mi ricordo se ho chiesto – risponde all’avvocato Giovinco che lo interroga -, anche se era un fatto di cronaca e non ci sarebbe stato nulla di male se avessi chiesto. Ma non ricordo i discorsi fatti anni fa a quei colloqui, è passato troppo tempo». Di quel fratello ucciso aveva seguito passo passo l’ascesa verso la leadership, malgrado la lunga detenzione in carcere. Motivo per il quale Giuseppe Di Giacomo potrebbe essere stato ucciso, una volta tornati liberi i vecchi boss. Chiarello racconta che il movente del delitto sarebbe da ricercare nel furibondo scontro che Di Giacomo ebbe proprio con una altro boss della zona uscito di galera col mandato di prendere il posto di comando.

Dopo i Di Giacomo tocca a un altro nome che spesso ha aleggiato nel processo, uno di quelli tirati in ballo sempre dal pentito Chiarello, Giuseppe Auteri. Sentito anche lui in video collegamento dal Pagliarelli, viene subito messo in guardia dal presidente di corte Sergio Gulotta: la sua posizione non è uguale a quella dei testimoni sentiti prima di lui, la sua posizione è quella di soggetto «indagabile», per via di alcuni elementi emersi durante il dibattimento che, d’accordo con accusa e difese, «consentirebbero indagini a suo carico» in relazione all’omicidio oggetto del processo. Un passato da operatore scolastico e una casa a Baida, Auteri si presta a rispondere alle domande. Ma non ha in realtà molto da dire: «Non conosco Salvatore Bonomolo – dice dell’uomo d’onore di Palermo Centro -, e non sono mai stato in qualche società di slot machine con questo lui né con Arcuri. Facevo solo il bidello e basta». Bonomolo, però, che si è pentito nel 2017, di Auteri parla e sarebbe proprio da lui che avrebbe saputo dell’omicidio dell’avvocato Fragalà, un delitto che sarebbe stato un favore fatto dagli uomini di Porta Nuova ai boss di Pagliarelli. Mentre Francesco Arcuri, tra gli imputati per il delitto del penalista, ammette di conoscerlo: «Diciamo che siamo cugini non so di che grado tramite i miei zii, qualche volta poteva succedere di vedersi, come con qualsiasi altro parente», spiega. Non conosce nemmeno Antonino Siragusa, imputato anche lui, «conosco solo il suo nome per averlo letto sui giornali», e neppure Francesco Chiarello, tranne per il fatto che «me lo sono ritrovato processualmente in quest’ultimo procedimento che sto affrontando».


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