Via D’Amelio, la Commissione antimafia sul depistaggio «È vergognosa la scelta di qualcuno di non presentarsi»

Dalla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino al ruolo del Sisde nelle indagini di Caltanissetta. Le ritrattazioni, i confronti coi collaboratori Cancemi, Di Matteo e La Barbera, i verbali annotati e le osservazioni di Boccassini e Sajeva. Sono solo alcuni dei punti toccati dalla relazione a firma della Commissione parlamentare antimafia che, nell’arco di un’ottantina di pagine, ripercorre le fasi salienti che hanno scandito il ritmo delle indagini sulla strage di via D’Amelio, tra omissioni, bugie e depistaggi lunghi 26 anni. Che scorrono tra le pieghe dei processi e si fermano con un occhio di riguardo sulla sentenza d’appello del Borsellino bis. «Pensiamo che molte cose siano state lasciate andare. Molti dei comportamenti di cui abbiamo preso nota pensiamo che non fossero destinati a depistare, ma hanno contribuito a consolidarlo di fatto questo depistaggio», spiega Claudio Fava, presidente della Commissione. Un depistaggio che inizia immediatamente in tre luoghi diversi appena Borsellino muore: in via D’Amelio con la sottrazione della sua agenda rossa; nella casa bonificata dove di solito il magistrato andava a riposare la domenica; nel suo ufficio, dove avviene la stessa cosa e che infatti viene trovato immacolato, come se non passasse le sue giornate lì. «Bonifica della vita di Paolo Borsellino, rispetto a quello che avrebbe potuto lasciare. Per questo le menti raffinatissime e non manovali del crimine, non solo almeno».

La relazione, approvata pochi minuti prima della sua presentazione ufficiale, verrà trasmessa per conoscenza alle procure di Caltanissetta e di Messina. Un lavoro condiviso, somma di molte e diverse competenze, che non indaga sulle responsabilità penali di qualcuno, ma che si limita a raccogliere le domande poste da Fiammetta Borsellino al 25esimo dalla strage e di girarle ai diversi attori che hanno fatto parte (e ne fanno ancora) della storia sul depistaggio. Domande, che per troppo tempo non sono state rivolte a chi di dovere, alcune delle quali hanno trovato risposta, mentre altre ancora sono state eluse, fuggite, producendo anche «risposte imbarazzanti». «Le abbiamo poste tutte, qualche elemento di contezza in più lo abbiamo. Se fossero state fatte in ambienti istituzionali in altri tempi probabilmente avremmo recuperato un po’ di verità in più», continua a dire il presidente Fava. Di fronte a una platea di giornalisti affamati di dettagli inediti e a una Fiammetta Borsellino seduta in seconda fila, silenziosa, che ogni tanto si limita ad annuire.

«Siamo arrivati a due conclusioni, che non sono nostre, non siamo nel limbo di opinioni e supposizioni, ma che arrivano dalla sintesi di tutti i materiali raccolti, atti giudiziari ostensivi e tutte le audizioni che abbiamo fatto». Audizioni cui si sono sottoposti magistrati come Gozzo, Sabella, Grasso, Di Giovanni, gli avvocati degli imputati falsamente accusati, Gioacchino Genchi, il colonnello Canale, alcuni giornalisti tra cui Angelo Mangano, mentre altri hanno declinato l’invito della Commissione con diverse giustificazione, come Ilda Boccassini e Nino Di Matteo, un atteggiamento «inaccettabile e moralmente vergognoso, un fatto che non ha giustificazione, al di là di quello che si potrà accertare nelle aule giudiziarie», secondo Fiammetta Borsellino, per cui di fronte a momenti del genere ogni cosa, dettaglio possa servire a dare qualcosa in più. «La responsabilità è collettiva, a nessuno dei cosiddetti amici e persone vicine è venuto in mente di allertare noi familiari rispetto ai tanti pericoli, non avevamo bisogno di essere consolati da un dolore che sapevamo di poter sopportare anche senza nessuno».

La prima conclusione di cui Fava parla nella relazione parte da un «dubbio forte, che la stessa mano non mafiosa che ha lavorato per condurre e accompagnare questo depistaggio, renderlo possibile, possa aver accompagnato anche gli esecutori della strage il 19 luglio ’92; cioè la sensazione che ci sia stata una continuità d’intenzione al di fuori della mafia che non si lega solo al momento immediato dell’attentato». La seconda è che probabilmente questo depistaggio è stato possibile sin da subito, «ma per averne pieno sentore è stato necessario attendere le parole di Spatuzza nel 2008 per capire che c’era un concorso di responsabilità che va oltre i tre imputati presenti all’epoca a dibattimento a Caltanissetta. La sensazione è che questo depistaggio sia anche il concerto di molti atti, reticenze a tutti i livelli istituzionali che hanno attraversato forze di polizia e magistratura. Se qualcuno avesse scelto di non starci avremmo capito che era in corso ben prima che dal 2008».

Due i punti su cui si è soffermato maggiormente il presidente. Al primo posto c’è il ruolo dei servizi segreti: «Non credo sia un caso che all’alba del 20 luglio il procuratore capo di Caltanissetta chiami il Sisde per dargli nelle mani l’indagine sulla strage – dice subito Fava -. Un ruolo penetrante, pervasivo, quello dei servizi, nell’immediatezza e nel luogo della strage. C’è stato ripetuto che la mano che sottrae l’agenda rossa di Borsellino non è mano mafiosa. La relazione si sofferma soprattutto sul loro ruolo dal momento della strage. Il Sisde viene chiamato a collaborare poche ore dopo la strage dalla procura di Caltanissetta. È grave che per 57 giorni la stessa procura abbia scelto di non ascoltare Paolo Borsellino e due ore dopo la strage abbia chiesto la collaborazione del Sisde». Una collaborazione di fatto vietata, contraria alla legge, ma che di fatto avviene e che prosegue anche all’indomani del numero tre del Sisde, Bruno Contrada, per i magistrati di Palermo colluso con la mafia. «Una svista? Troppo zelo? Ingenuità?». Una prima nota del Sisde individua in un contesto solamente mafioso il punto da cui sarebbe partito l’ordine per la strage, sfrondando il campo da altre possibili ipotesi e letture. Si comincia poi a vestire il pupo, Vincenzo Scarantino. «Il giornalista Angelo Mangano racconta “Sapevamo tutti, noi che venivamo dalla Guadagna, che era un poveraccio che vendeva sigarette di contrabbando con un banchetto in piazza”», riporta fava.

E poi ci sono i confronti tra Scarantino e i tre collaboratori di giustizia che lo smentiscono: Di Matteo, La Barbera, Cancemi. Inseriti fra gli atti del processo all’epoca in corso solo a due anni di distanza. «Se questo fosse accaduto prima Scarantino sarebbe stato forse smascherato prima. Coloro che parteciparono a questi interrogatori e decisero di non trasferirli nel processo a Caltanissetta sono passaggi che si replicano nella cosiddetta gestione del finto pentito Scarantino». Dieci colloqui sono serviti a mettere su l’impalcatura dell’accusa. Colloqui sui quali nessuno ha posto, negli anni, alcuna domanda. «Le spiegazioni sono state piuttosto vaghe». Fino alle ritrattazioni. «Ciò che lascia perplessi rispetto alla ritrattazione è che si decise di credere che fosse stata la mafia ad averlo costretto a ritrattare – dice Fava -. Come si faceva, con processi già in corso, a rimettere tutto? Si sceglie quindi di non credergli». Oltre a Borsellino, però, a non venire ascoltato, almeno nell’immediato dopo la sua morte, è il maresciallo canale, trasferito irritualmente a Roma con nuovo incarico il 20 luglio e sentito solo sei mesi dopo la strage. «Si scelse di non credere neppure a lui. Ma Canale camminava con Borsellino, conosceva la sua agenda reale, sapeva in maniera informale alcune cose, e nega fortemente che il 20 luglio dovesse essere sentito Borsellino a Caltanissetta». Una mancata testimonianza, che invece Canale si aspettava.

«Di questo depistaggio si sarebbe potuto sapere ben prima che parlasse Spatuzza. Noi le domande le abbiamo fatte, per la prima volta alcune son state letteralmente e formalmente formulate a chi prima d’ora non le aveva mai ricevute – continua fava -. Resta un vuoto di verità su quale sia stata la regia parallela su strage e depistaggio. Molti dei comportamenti di cui abbiamo annotato pensiamo che non fossero destinati a depistare, ma hanno contribuito a consolidarlo. Se chi aveva la possibilità per cognizione, ruolo o funzione per sottolineare le contraddizioni di questa indagine, non sarebbe stato necessario aspettare le dichiarazioni di Spatuzza e le parole della famiglia Borsellino al 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio. Per mesi nessuno si è posto problemi e domande che la famiglia invece ha posto subito. “Mafia fu”, non doveva essere altro».

«Oggi provo quello che può provare una figlia che ha perso il padre in questo modo – torna a dire Fiammetta -, non penso di fare altro che esprimere un dolore che non si potrà mai sedare, si cerca soltanto di dare un senso che va probabilmente al di là delle risposte giudiziarie o risarcitorie, ma anche quello è difficile. Perché quando si cerva di avviare un rapporto personale, come ho cercato di fare coi detenuto, continuo a vivere questa negazione come un andare contro un mio diritto, al di là di tutte le giustificazioni che mi vengono date, che non mi convincono, come altre cose che mi vengono dette di passaggio ogni 19 luglio. Nessuna risposta alla promessa del ministero di Grazia e giustizia perché vengano aperti gli archivi del Sisde. Le mie domande sono ancora tutte senza risposta. Se qualcuno ritiene a questo punto di dover dare un contributo, che lo faccia, per morire in pace. Mi scuso se sono irruenta ogni tanto, ma questo è un oltraggio».


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