La doppia vita del dipendente Amap tra i centri scommesse «Sono in ufficio, se è urgente mi metto in permesso e vengo»

«Sono in ufficio, è urgente? Se è urgente mi metto in permesso e vengo. Se non è urgente, dico, vengo più tardi». Quando la mafia chiama, il posto di lavoro può attendere. D’altra parte te lo puoi permettere se sei allo stesso tempo un affiliato alla famiglia mafiosa di Pagliarelli e contemporaneamente un dipendente Amap. Così i magistrati ricostruiscono la storia di Michele Grasso, braccio destro di Settimo Mineo (l’erede designato di Totò Riina) e responsabile della proliferazione dei centri scommesse nel capoluogo siciliano. Una storia che ben spiegherebbe l’intreccio sempre più intricato tra mafia e gioco d’azzardo. Nell’operazione della Direzione distrettuale antimafia che ha portato ieri all’arresto di 46 persone – ritenute responsabili a vario titolo della riorganizzazione di Cosa nostra a causa del vuoto di potere scattato alla morte del capo dei capi – c’è spazio anche per gli appetiti voraci verso uno dei settori storicamente preferiti dalle organizzazioni criminali. 

I primi contatti tra il lavoratore della municipalizzata e Mineo vengono documentati a partire dal settembre 2015. Da quel momento la febbrile attività di Grasso, impegnato a sostenere attraverso continui solleciti i sempre più numerosi centri scommesse che sorgono in pochi anni attorno a corso Tukory (dove Mineo gestiva la gioielleria di famiglia), non conosce sosta. E tra un turno di lavoro e l’altro il dipendente Amap incontra «spesso» il suo referente mafioso, come scrivono gli inquirenti, e «sempre nei medesimi luoghi: presso il fruttivendolo di via Madonia, la gioielleria di corso Tukory o il garage Tony Parking sito in via Piave». All’occorrenza è lo stesso Mineo a occuparsi degli affari in prima persona.

Per gli inquirenti costituisce «di fatto una presenza estremamente visibile nella dimensione sociale ed economica del territorio di Pagliarelli e, in particolare, del quartiere Villaggio Santa Rosalia. D’altronde la diffusa connivenza registrata fra i commercianti e gli imprenditori locali appare conseguente alla pressione ininterrottamente esercitata sul territorio dall’organizzazione attraverso la costante presenza di elementi noti e facilmente riconoscibili come appunto Mineo». Le cosche dunque vengono ininterrottamente finanziate «attraverso i proventi delle agenzie di scommesse». Come sottolineano ancora gli investigatori «il ricorso da parte delle famiglie mafiose ad investimenti nel settore dei centri scommesse rappresenta, ormai da tempo, una costante. Tali attività, facilmente intraprese grazie alla connivenza di prestanome, costituiscono una fonte di rapido profitto ed offrono la concreta possibilità di riciclaggio di capitali di provenienza illecita. Il movimento di denaro che ne deriva permette, inoltre, di mascherare flussi non altrimenti giustificabili. Notevole è infine la funzione che le agenzie svolgono sul territorio, risultando presidio per gli affiliati e crocevia d’informazioni e traffici di vario tipo».

I centri scommesse, poi, non sono comunque l’unico ambito dell’azzardo che fa gola alla mafia. A Misilmeri, ad esempio, l’enorme sala bingo Montecarlo non solo era gestita di fatto da Antonio Adelfio, ritenuto elemento di rilievo della famiglia mafiosa di Palermo-Villagrazia, ma all’occorrenza serviva come cassa per l’organizzazione. Come quando, nell’aprile del 2013, un ammanco di 80mila euro dalle casse del bingo rischia di scatenare una guerra di mafia tra le famiglie Adelfio e Bisconti che viene risolta solo grazie alla mediazione del boss Antonino Pipitone.

Quando serve, poi, Cosa nostra palermitana coniuga vecchie e nuove forme di imposizione sul territorio. Come avviene con le famiglie mafiose di Villabate nel settore del gioco d’azzardo. Per ogni slot machine, infatti, si ottiene un profitto di 50 euro. Occupandosi della distribuzione delle slot presso gli esercizi commerciali del palermitano, Filippo Cusumano – autista del capo del mandamento mafioso di Villabate Francesco Colletti e a sua volta uomo d’onore – usava ad esempio le cosiddette macchinette mangiasoldi come una forma di pizzo. Con una percentuale sugli incassi che veniva poi lasciata dallo stesso Cusumano in vari bar di Villabate. Il metodo era collaudato: Cusumano portava con sè una busta piena di soldi e, dopo essersi accordato al telefono con Angelo De Simone, la lasciava presso un esercizio commerciale concordato. 


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