Intervista a Franco, il fratello minore del prete ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993, che ammette: «I miei figli allora erano soltanto dei ragazzi, facevano i campi scuola con lui, sono cresciuti con lui. Raccogliere il loro dolore è stata forse la cosa più dura».
Padre Puglisi e i pranzi della domenica in famiglia «Pino un Santo? Avrei preferito avere mio fratello»
«Pino per me era soltanto mio fratello. Certo, è un onore avere un santo in famiglia. Ma, mi creda, avessi potuto scegliere, avrei voluto mio fratello accanto in questi 25 anni». Franco Puglisi, fratello minore del prete ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993, appare stanco, affaticato dalle lunghe giornate che hanno preceduto la visita del Papa e la canonizzazione del fratello Pino Puglisi, il secondo, che ha dovuto piangere. Un altro fratello di Don Pino, infatti, è morto a 15 anni per un problema cardiaco. Erano in quattro, sono rimasti in due. «Molte volte mi hanno chiesto quando ci siamo accorti di avere un Santo in famiglia. Io non me ne sono mai accorto, per me quello era mio fratello».
È così anche adesso?
«Anche adesso. Certo, è un grande onore, ma avrei preferito avere accanto a me mio fratello negli ultimi 25 anni, mi creda. Santo lo sarebbe stato lo stesso, ma avrei preferito averlo accanto a me in questi 25 anni».
Cosa le è mancato di più in questi anni?
«Lui veniva la domenica a casa mia, tutte le domeniche a pranzo. Una vicina di casa una volta chiese a mia moglie come potesse sopportare questo prete ogni domenica in casa. Mia moglie rispose che in casa sua non entrava il prete, ma suo cognato, il prete lo lascia fuori. Era un piacere avere Pino a casa ogni domenica, non è che venisse a parlare di chiesa o di Dio, toccava l’argomento soltanto se eravamo noi, se erano i miei figli, a chiederlo. Per il resto si parlava di tutto, di politica, di sport, di calcio, ascoltavamo la cronaca sportiva insieme».
E poi si pranzava.
«Sì, poi c’era il momento del pranzo della domenica. Era una buona forchetta, mangiava di tutto e di più. Diceva di fare il pieno come i cammelli, perché tutta la settimana mangiava da solo, si apriva una scatoletta, la metteva a tavola e mangiava direttamente da lì, con un libro aperto davanti».
Era molto legato ai suoi figli?
«I miei figli nel ’93 erano ragazzi, facevano i campi scuola con lui, sono cresciuti con lui. Raccogliere il loro dolore è stata forse la cosa più dura».
Ieri il premier Conte ha inaugurato l’anno scolastico proprio a Brancaccio.
«Sono contento di averlo pungolato: se ai suoi predecessori che sono venuti a fare passerella in questa scuola io ho sempre chiesto qualcosa, a lui non voluto chiedere niente. Così non dovrò rinfacciargli, come mi sono trovato costretto a fare in passato, di non avere fatto quel che si era impegnato a fare per questo quartiere, che è la periferia abbandonata di Palermo».
Però degli impegni li ha presi.
«Conte ha voluto vedere i nostri progetti, dalla piazza per Brancaccio, dove la piazza non c’è, fino a un asilo nido per il quartiere. Lui ha mostrato la sua disponibilità, vedremo».
Lei l’ha definita «la periferia abbandonata di Palermo». Come è cambiata la gente di Brancaccio negli ultimi 25 anni?
«Io penso che mio fratello, da seme, sia diventato pianta a distanza di 25 anni. Non tanto per gli adulti o gli anziani, perché è difficile a una certa età cambiare mentalità, ma i bambini di allora adesso sono diventati adulti e sono cambiati, rappresentano una nuova, buona e bella generazione. Anche i bambini di oggi crescono in maniera diversa, c’è la scuola, ci sono le basi per potere togliere, come faceva mio fratello, la manovalanza alla mafia, che approfittava dell’ignoranza e dei bisogni della gente».
Cosa ne pensa dell’assenza del sindaco?
«Non voglio entrare in politica, ma avrei gradito che fosse presente. Se non lo ha fatto, si vede che ha ritenuto opportuno non esserci. Io spero che sia presente per i progetti del quartiere. E li appoggi».