Processo Saguto, le pressioni a Scimeca per il debito Sgroi «Uno pagava in contanti e l’altro si attribuiva i versamenti»

Tra gli scandali legati alla mala gestio dei beni confiscati alla mafia quando la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo era guidata dall’ex giudice Silvana Saguto – sotto processo a Caltanissetta per rendere conto del suo cosiddetto cerchio magico – ci sono anche le pressioni a Scimeca, amministratore giudiziario alle sue dipendenze. Quello che per oltre un anno, a rievocare le parole dei magistrati, «stava subendo il comportamento predatorio di Silvana Saguto». Come? «Strumentalizzando la posizione di preminenza ricoperta rispetto ad Alessandro Scimeca – per dirla sempre coi magistrati -, il cui compendio patrimoniale includeva anche la società Supermercati Sgroi Autonomia srl, società nei confronti della quale la famiglia Saguto-Caramma al maggio 2014 aveva un’esposizione debitoria di 19.674,87 euro – mediante minaccia implicita di un danno ingiusto, rappresentato dal fatto che avrebbe delegittimato Scimeca sui giornali anche con notizie non corrispondenti al vero», come già era accaduto in precedenza.

La famiglia avrebbe costretto Scimeca a coprire il loro debito di quasi ventimila euro col supermercato. Ma lui, non avendo immediata disponibilità di una cifra del genere, sarebbe stato costretto a frequenti pagamenti in contanti più modesti, prelevando dai propri conti correnti e consegnati al personale addetto alla contabilità del punto vendita. Lo avrebbe fatto più e più volte, Scimeca, per un totale di 12mila e trecento euro, accollandosi così di ripagare i debiti della famiglia, «consapevole di non avere alternative all’adeguarsi alla volontà di Silvana Saguto perché diversamente “sarebbe stato macinato”, “messo in croce” – dicono i magistrati riportando le dichiarazioni dell’amministratore -, avrebbe smesso di lavorare e sarebbe stato “sparato quotidianamente sul giornale”». «Questi soldi ce li ho appizzati io», avrebbe detto ancora Scimeca all’amico Gianfranco Scimone, ex collega sentito a Caltanissetta al processo che coinvolge l’ex giudice Saguto. Soldi di cui però Lorenzo Caramma, suo marito, non sembra sapere molto.

«Lui non aveva contezza di questo fatto, non sapeva che fosse così elevato questo debito con la Sgroi. Gli è venuto il dubbio che li avesse fatti lui quei pagamenti, non li ha disconosciuti, per le cifre che erano, o li aveva fatti lui o Scimeca il saldo quello era – racconta in aula il teste -. Io non volevo entrare nel merito della questione, di quali fossero i pensieri, le intenzioni e i suoi ragionamenti non mi interessava, non ero il suo consulente, svolgevo un altro ruolo. Non ne parlammo più. Ma gli dissi di controllare se effettivamente fosse quello il loro debito nei confronti della ditta». Insomma, secondo la versione ufficiale da un lato c’è uno che dice di averci appizzato i soldi, cioè Scimeca, dall’altro qualcuno che invece si attribuisce falsamente quei soldi e quei versamenti, cioè Caramma. Anche se al pm Scimone non fa che ribadire che il punto della vicenda all’epoca fosse un altro: e cioè che bisognava controllare se la quantificazione del debito fosse esatta o meno, e non chi si attribuisse in effetti quei pagamenti a Sgroi.

«Io non so chi ha fatto effettivamente quei pagamenti, so che erano in linea tutti e due, non so se ci fosse un accordo o una versione ufficiale», risponde il teste. «Qui si sta giocando con le sottigliezze», esclama a un certo punto il pm Maurizio Bonaccorso, esasperato dal confronto con Scimone, che non vuole cedere il passo sulla versione ufficiale. «Caramma non mi chiede mai di veicolare un qualche accordo con Scimeca, non sono stato tramite di niente». Intanto, mentre nei giorni successivi alla perquisizione nell’appartamento di famiglia – è il 9 settembre 2015, il giorno in cui scoppia lo scandalo -, Caramma mostra un atteggiamento tranquillo e normale, Scimeca appare all’amico Scimone piuttosto diverso. «Era preoccupato, lo avevo visto pensieroso, sudato, non era il solito», ne è certo, in fondo lo conosce dai tempi dell’università. «L’ho trovato in una situazione emotiva diversa dal solito, ho pensato che le recenti notizie delle perquisizioni avessero influito – dice ancora il teste -. Mi disse che non voleva contattare i coniugi, perché l’avvocato glielo aveva sconsigliato. Farfugliava, non parlava in maniera chiara e intellegibile, pensava di essere intercettato».

Ed è convinto che Lorenzo Caramma voglia incontrarlo per chiarire la questione del debito col supermercato. Ma questo incontro non avverrà mai. Si incontrano, invece, Caramma e Scimone, anche perché il primo chiede all’altro un parere tecnico per verificare se ogni entrata nei loro conti correnti di famiglia fosse «giustificata». «In pratica ho fatto quello che ha fatto la guardia di finanza, controllando all’inizio le entrate nei conti correnti». Dopo Scimone, ascoltato per oltre due ore dalla corte, a sedere sul banco dei testimoni è Fabio Antonucci, assistente capo della polizia e autista della prefetta di Palermo, servizio questo che svolge da 12 anni. Riferisce di Antonino Galatolo, cugino acquisito, che sarà sentito alla prossima udienza. «La prefetta Cannizzo aveva saputo che lui era un amministratore giudiziario, mi aveva chiesto di informarmi con lui della possibilità di fare lavorare Massimo Lo Iacono, il marito della donna che le faceva le pulizie in casa, perché aveva perso il lavoro – racconta il teste -. L’ex prefetta mi chiese di segnalarlo a mio cugino affinché lo coinvolgesse in un’amministrazione giudiziaria di beni in sequestro di prevenzione di cui si stava occupando. Penso lo abbia assunto, poi. Non lo so per certo».


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