Addio a Moussa, l’afropalermitano che ha stregato Ballarò Al via una raccolta di fondi per riportare la salma in Africa

«A lui che era sempre in ritardo, ma che stavolta ha fatto troppo presto ad andare, lasciandoci tutti un po’ più soli e tristi». Inizia così il post che gira sui social per raccogliere i fondi necessari per fare sì che la salma di Birba Moussa possa tornare in Africa. Tra i vicoli di Ballarò e in buona parte della città Moussa era un’istituzione. Una presenza solare, una voce narrante, «di quelle persone che anche se passano nella tua vita per cinque minuti non possono che lasciare il segno», per usare le parole di Vitalba, la sorella della sua ex compagna. Ivoriano con sangue del Burkina Faso, aveva lasciato il suo Paese d’origine quasi 20 anni fa per venire a studiare a Palermo, dove ha frequentato la facoltà di Economia. Se n’è andato all’improvviso, nel pomeriggio di sabato, colto da un arresto cardiaco a Siracusa, dove viveva da un paio d’anni. 

«Il giorno che è successo l’accaduto sono passata da Ballarò – racconta ancora Vitalba – e ho avuto una strana sensazione nel rivedere la taverna dove lo incontravo sempre e dove aveva sempre un pretesto per bere una birra insieme, poi arrivata a casa ho saputo la notizia». Un comunicatore, non solo per il fatto che parlasse fluentemente italiano, inglese, francese e una miriade di dialetti africani, abilità che lo rendeva prezioso nel suo lavoro di mediatore culturale, ma perché Moussa da tutti è ricordato per le sue storie, che lo rendevano «una persona carismatica, di cultura, interessata e interessante». 

Antonella, la sua attuale compagna, lo racconta come un uomo «amato da tutti per la sua grande generosità, umanità, per il suo ottimismo, che diffondeva. Ha lasciato un ricordo, un sorriso, una parola d’incoraggiamento a tutti quelli che lo hanno conosciuto. E poi ha lasciato i racconti dell’Africa, della tradizione e della cultura africana. Era burkinabe e ivoriano, scherzando gli dicevo che era un po’ un ambasciatore dell’Africa, perché riusciva a far comprendere, gli piaceva parlare delle tradizioni, della cultura dei suoi due Paesi e dell’Africa occidentale in generale. E questo lo faceva a volte indossando anche abiti tradizionali». Sempre in prima fila nelle manifestazioni antirazziste, sempre presente quando si trattava di venire incontro ai bisogni di quelli che chiamava i suoi fratelli africani. «È stato per diversi anni interprete presso le commissioni territoriali che riconoscono la protezione internazionale – continua Antonella – Questo lavoro lo faceva con grande entusiasmo, serietà professionale, ma anche con un impegno particolare affinché la storia delle persone per cui era chiamato a tradurre potesse arrivare in maniera quanto più corrispondente alla realtà. E questo lavoro lo ha messo in contatto con membri della prefettura, della polizia e dell’Unhcr».

D’estate o nel fine settimana faceva anche il bartender, ha lavorato ai Candelai e all’Havana Club a Palermo e lo stesso faceva a Siracusa. «I suoi cocktail erano i più buoni del mondo a quanto dicono tutti – prosegue ancora la compagna – ma con il cocktail colorato, equilibrato, decorato meravigliosamente, arrivava il suo sorriso. Anche per questo molte persone lo hanno conosciuto, perché era comunicativo: dai bambini che si innamoravano dei suoi dreadlock e dei suoi dentoni bianchi alle persone anziane, che lui chiamava tutte papà o mamma perché sentiva molto il rispetto nei confronti di quelli che vedeva come rappresentanti di una storia che deve essere raccontata e ascoltata, un po’ come si fa in Africa, dove c’è un detto che dice che “quando muore un anziano è come se fosse bruciata una biblioteca“. Credeva molto nella forza del racconto». Dopo la notizia della morte in tanti si sono mossi perché la sua salma potesse tornare in Africa, «A Palermo si è fatto in quattro per palermitani e africani, se questo è un modo per poterlo aiutare, allora organizziamo la raccolta» racconta Vitalba. «Non saprei dire quando ha espresso direttamente il desiderio di essere sepolto in Africa, ma questo è in linea con l’importanza che lui dava alle radici, alla sua terra e al ritorno nella terra dei suoi antenati» aggiunge Antonella. Moussa è padre di un ragazzo che vive ancora in Costa d’Avorio e di due figlie che abitano a Palermo. 


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