Libero Grassi, la figlia: «Maestro? In pochi hanno imparato» Addiopizzo: «Una fetta di imprenditori paga per convenienza»

«Ogni anno mi si chiede cosa sia rimasto dell’insegnamento di mio padre. Se fosse stato un maestro allora dovrei dire che la classe, la cittadinanza, è stata piuttosto distratta. Ancora oggi, parlando con la gente, capisco che quello delle estorsioni è un problema poco sentito. Le denunce sono poche rispetto al fenomeno. La gente non capisce che in una città in cui la mafia ha condizionato tutti i processi a partire da quelli economici un cambiamento culturale è necessario». Un intervento breve quello di Alice Grassi, figlia di Libero, imprenditore ucciso dalla mafia perché aveva denunciato i propri estorsori 27 anni fa, ma che va diretto al punto. Ed è proprio l’evoluzione del fenomeno dell’estorsione e i nuovi problemi che questo comporta, il centro del dibattito organizzato da Addiopizzo per ricordare Libero Grassi nell’anniversario della sua morte. Alle parole di Alice Grassi fanno eco quelle del fratello, ancora più lapidario. «Chi conosce un po’ la storia di Libero Grassi – dice Davide Grassi – sa che la ribellione al racket non è stato un atto avulso dalla sua storia personale, ma perfettamente coerente con la sua visione culturale e intellettuale di cittadino europeo in una società aperta e democratica. Libero Grassi non denunciava i suoi estorsori di mattina e di pomeriggio andava a incendiare i boschi, né denunciava gli estorsori di mattina e di pomeriggio andava a sparare agli immigrati, come forse l’aria che ci circonda ci suggerisce di fare».

«Il fenomeno dell’estorsione è presente, si rigenera – spiega Daniele Marannano, presidente di Addiopizzo – Si sono create delle crepe nel muro dell’omertà, ma non è ancora crollato. Dal nostro osservatorio così limitato e ristretto abbiamo formulato alcune idee: c’è ancora paura e sfiducia in alcune aree della Sicilia e nella città ci sono sacche di povertà e di degrado culturale». Poi la denuncia di un fenomeno che l’associazione antiracket lamenta da tempo: «C’è una fetta di commercianti e di imprenditori che paga per convenienza, perché riconosce al suo estorsore il pizzo e si rivolge al suo stesso estorsore per recuperare crediti, per scalzare concorrenti, per risolvere problemi di vicinato e addirittura per dirimere controversie sindacali. Riteniamo che occorrano delle misure sanzionatorie non penali ma amministrative che rendano sconveniente questo sistema di acquiescenza. Un atteggiamento che nel frattempo sovraespone chi ha trovato la forza di denunciare. Questo scenario si inserisce in un periodo di grave crisi economica che ha divorato il tessuto economico e produttivo della città da un lato e dell’altro ha anche favorito fenomeni di resistenza. Tutto questo è bene farcelo presente per avere chiara una tendenza che non è dominante, ma c’è, di imprenditori che tendono a riversare sui fenomeni estorsivi che hanno subito la colpa di una difficoltà economica che magari dipende dal mercato o da investimenti sbagliati, così come c’è chi denuncia per cercare di scongiurare pericoli di interdittive e misure di prevenzione». 

E sul tema delle denunce, così come del pagamento del pizzo, a convenienza si è espressa anche la prefetta di Palermo, Antonella De Miro, in un lungo discorso supportato da numeri e considerazioni che ha voluto consegnare al collega, il prefetto Domenico Cuttaia, commissario nazionale antiracket, presente al dibattito. «Cosa nostra cambia pelle e si avvicina sempre più a un’agenzia di servizi. Nel 2016 – dice citando dati di polizia, carabinieri e guardia di finanza – ci sono stati 45 fenomeni di estorsione accertati con 16 vittime che hanno denunciato spontaneamente. Nel 2017 su 29 vittime in cinque hanno denunciato in maniera spontanea, mentre nel primo semestre del 2018 su 19 casi le denunce volontarie sono state cinque. Tutti gli altri o non hanno confermato di aver subito l’estorsione o, nella maggior parte dei casi, hanno iniziato a collaborare solo di fronte all’esito di un’attività investigativa fatta di intercettazioni ambientali di fronte alla quali non possono sottrarsi dal confermare». Se da una parte però le denunce sono in calo, diminuiscono anche le istanze presentate in prefettura per il risarcimento dei danni subiti dall’azione degli estorsori, un dato eloquente su come Cosa nostra stia cambiando il proprio modus operandi, scegliendo sempre meno volte di ricorrere alla forza per estorcere il pizzo.

«Lo Stato ha vinto sulla strategia del clan dei corleonesi – continua De Miro – ma il fenomeno esiste ancora, lo dicono le indagini, il pizzo è ancora un’attività criminale considerata importante per Cosa nostra anche se non è la sua attività principe. Poi c‘è chi paga per entrare nel mondo mafioso o per esserci fortemente contiguo. Dalle letture di ordinanze di custodia si legge anche questo. Poi a un certo momento si denuncia l’estorsione patita. E questa persona si avvicina al mondo associativo o si costituisce parte civile nei confronti dell’estorto magari per ottenere un rilascio di un’informazione antimafia favorevole, quanto questa collaborazione sia sincera non lo possiamo sapere. Per accedere ai benefici che la legge ha voluto dare a gente come Libero Grassi, forse serve qualche prova in più. Da questi caso dobbiamo partire per individuare quelle che sono le vere vittime. E su questo punto la prefetta spiega le possibili soluzioni: «Oggi chi non vuole sottomettersi alle estorsioni può farlo in sicurezza, sostenuto dallo Stato e dalla società civile. Ci sono condizioni che 27 anni fa non c’erano. Dobbiamo distinguere chi è una persona libera da altri che o sono intimiditi da un’indagine in corso o perché traggono vantaggio dalle estorsioni subite. E lo Stato deve decidere se difendere in maniera forte gli uomini libere o quelli che stanno sotto dei coni d’ombra. Ecco perché ho ritenuto di fare certe scelte in merito a certe associazioni all’interno dell’albo prefettizio». Cosa fare allora per mantenere alta la guardia? «Occorrono nuovi strumenti normativi per censurare chi pur potendo non denuncia la vicenda estortiva, ma che aderendo alla richiesta del pizzo contribuisce a rafforzare Cosa nostra sul territorio. Mi sono trovata anche io a raccogliere le istanze di imprenditori che hanno denunciato il proprio estorsore, ma che per anni hanno pagato. Serve una tutela premiale, che garanzia di cambiamento posso chiedere a questo imprenditore per assicurarmi che sia passato dalla parte del bene?»

Un messaggio recepito da Cuttaia, che ha sottolineato l’importanza di «distinguere le denunce genuine da quelle viziate dall’acquiescenza». Un fenomeno, quello delle nuove estorsioni e della sorta di connivenza di chi paga, che crea una zona grigia che inquina nei pozzi l’acqua portata dal lavoro di magistratura, istituzioni e associazioni, come confermato anche dal procuratore aggiunto di Palermo Savatore De Luca, che ha voluto raccontare di come quello dell’estorsione sia un mercato fiorente perché semplice. «Nel 2015 l’operazione Apocalisse aveva decimato sensibilmente la famiglia di Resuttana. Sul territorio erano rimasti solo elementi non di spicco, ma di calibro addirittura medio piccolo, gente che non aveva i contatti giusti per avviare un mercato come quello della droga o le competenze per puntare sul gioco d’azzardo. In un anno tre scalcagnati sono riusciti a mettere in piedi il mandamento, perché per chiedere il pizzo serve solo bassa manovalanza». De Luca ha tuttavia puntualizzato come l’azione della magistratura risenta della carenza di mezzi e di personale. 


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