L’ex boss di Porta Nuova, collaboratore di giustizia dall’anno scorso, ha riferito quanto raccontatogli in cella da Giuseppe Auteri, implicato nel caso e poi prosciolto, confermando la tesi della spedizione punitiva di stampo mafioso. «Avia a iessere solo una passata i colpi i ligna», quello che tre giorni dopo si è trasformato in un delitto
Omicidio Fragalà, la versione del pentito Bonomolo «Cortesia a chiddi i dda supra, quelli dei Pagliarelli»
«Avia a iessere solo una passata i colpi i ligna, invece ora c’è il morto». Doveva essere solo questo l’aggressione all’avvocato Enzo Fragalà, quella sera del 23 febbraio 2010. Così secondo quanto riferito davanti alla prima corte d’assise da Salvatore Bonomolo, ex mafioso della famiglia di Porta Nuova, che ha riportato quanto gli aveva raccontato in cella un compare di cosca, Giuseppe Auteri, implicato nel caso e poi prosciolto. Latitante dal 2006 in Venezuela, fra Caracas e l’isola di Margarita, Bonomolo torna in Italia solo nel 2013, in manette. Passa dal carcere di Rebibbia a quello di Sulmona, fino a fare ritorno a Palermo per affrontare un processo a suo carico per una rapina in via Terrasanta.
Sentito come teste assistito, Bonomolo ha concentrato il suo racconto su uno in particolare dei sei imputati per l’omicidio del penalista, Francesco Arcuri. Ricorda bene, davanti ai giudici, che Auteri in cella gli disse che «Francesco c’era andato pesante, lui stesso lo aveva accompagnato per due volte a pedinarlo, all’avvocato, a curarselo, per vedere i movimenti che faceva – racconta il collaboratore -. Auteri mi disse che chiddi i dda supra erano arrabbiati con lui, che fu una cortesia a chiddi i dda supra, si riferiva a quelli dei Pagliarelli». Parlano, lui e Auteri, solo in un’occasione dell’omicidio dell’avvocato Fragalà, «era pericoloso, la gente si preoccupa di essere intercettata». Ma in carcere in generale ogni tanto si parlava di questo omicidio, «qualcuno diceva che c’era stato casino nel mandamento. Ma si parlava anche di altri omicidi di quell’epoca, come quello di Davide Romano».
Auteri però è tranquillo, sapeva che Arcuri non avrebbe collaborato. Lo era meno, sempre rispetto a quanto racconta a Bonomolo, rispetto a un altro imputato del processo, Antonino Siragusa, «lo vedeva un po’ abbattuto, giù di morale e per questo motivo si preoccupava», riporta il collaboratore, che riconosce entrambi, Arcuri e Siragusa, nelle foto mostrate dalla pm Caterina Malagoli in aula. Riconosce anche Giuseppe Auteri e Pietruccio u Cocco. Dopo di lui, a testimoniare è Vincenzo Marchese, uno degli ultimi clienti dell’avvocato Fragalà, imputato per intestazione fittizia e riciclaggio di denaro nello stesso procedimento a carico anche di Antonino Rotolo, storico boss di Cosa nostra, procedimento che avrebbe scatenato la spedizione punitiva proprio contro Fragalà: «Siamo cresciuti insieme, ho conosciuto anche sua moglie, Antonia Sansone. Avevo quattordici anni quando ho conosciuto Nino, abbiamo lavorato insieme all’officina Morello, poi il fratello Francesco che era un vigile del fuoco c’ha fatto fare il militare nei pompieri e questa ulteriore esperienza ci ha legati ancora di più come amici».
I due prendono strade diverse. Almeno fino a un giorno del 1998, quando alla sua porta si presenta la moglie di Rotolo, che gli racconta che il marito è stato condannato per ergastolo e che le ha detto espressamente di rivolgersi a lui, a Vincenzo Marchese, perché è l’unica persona di cui si fidava, un uomo onesto. Deve fare loro un favore, riscuotere per conto di Antonia Sansone una grossa cifra di denaro vinta al lotto: «Mi ha fatto pietà e ho accettato. Ho creduto a quello che mi raccontò», dice il teste. Una vicenda per il quale finisce implicato e condannato. All’Ucciardone, dove sconta la sua pena, l’avvocato Fragalà, che lo rappresenta, è un «pezzo di sbirru e carabiniere, perché un su cancia?» gli chiedono alcuni detenuti. «Lo avevano giudicato in questa maniera, all’avvocato, non so perché – dice Marchese -. Mi ripeteva spesso, soprattutto dopo la lettera ricevuta dalla signora Rotolo, che oltre a difendermi era suo dovere anche proteggermi da eventuali ritorsioni». Il riferimento è all’ormai nota lettera che il penalista decise di leggere in aula, durante l’arringa finale di quel procedimento, per difendere Marchese. Decisione, quella di leggerla pubblicamente in udienza, che preoccupò il teste, che temeva di scatenare una reazione da parte di Rotolo nei confronti della moglie.