Caso Mered, parla il cugino del detenuto «Medhanie è qui, quello col giubbino blu»

«Medhanie è quello lì, quello col giubbino blu». È stata questa la risposta di Haile Fishaye Tesfay alla domanda dell’avvocato Michele Calantropo, durante la testimonianza di questa mattina resa al processo contro il presunto trafficante di esseri umani Mered Yehdego Medhanie. Fishaye allunga il braccio e con la sua mano indica uno dei due detenuti rinchiusi nell’acquario di vetro dentro l’aula. Quello si chiama Medhanie Tesfamariam Behre, la stessa identità sostenuta dal giovane arrestato sin dal momento della sua estradizione in Italia a giugno del 2016. «Lo conosco con questo nome, non ne ha altri, non ci sono alias – spiega il testimone -. Quando lo hanno arrestato io ho sentito di questo altro, di questo Mered Medhanie Yehdego, l’ho saputo quando è successa questa cosa. Ma non lo conoscevo, non lo avevo mai sentito prima, perché io sono uscito nel 2003, non c’erano questi nomi, queste persone, c’erano altre persone. Sono tanti, sempre, e cambiano».

Fishaye è originario di Asmara. Lascia la sua terra, dove è un soldato, di nascosto, fuggendo. E nel 2003 arriva clandestinamente a Pozzallo a bordo di un gommone. Prima di rivedere tutta la sua famiglia passeranno oltre dieci anni. Qui a Palermo fa le pulizie in una casa. Dichiara sotto giuramento di essere un parente del giovane detenuto al Pagliarelli da oltre un anno con l’accusa di essere Mered e che lui, oggi, ha riconosciuto e indicato come Medhanie Tesfamariam Behre. I rispettivi genitori sono cugini e sia lui che Medhanie sono cresciuti praticamente insieme

«Non penso sia mai stato coinvolto nel traffico di eritrei verso l’Europa – continua a dire -. La mamma di Medhanie si chiama Maeza Zerai Weldai, conosco i suoi due fratelli e le sue quattro sorelle». Fishaye riconosce Medhanie anche nelle fotografie contenute all’interno della relazione, depositata agli atti, del perito di parte, l’ingegnere Marco Manolo Belmonte: in più di un’immagine dichiara di riconoscere distintamente il detenuto, insieme al proprio fratello, Temesgen, e ad altri familiari. I due si incontrano l’ultima volta nel 2015, quando Fishaye torna, con un visto speciale concesso dall’ambasciata etiope di Roma, ad Addis Abeba.

«Quando ho rivisto i miei familiari c’era anche lui, Medhanie, che era entrato un paio di mesi prima insieme a mio fratello – continua Fishaye -. Non ricordo con esattezza quante volte ci siamo sentiti, ricordo che il numero me lo diede proprio mio fratello, in Sudan abitavano insieme. Noi usiamo qualunque telefonino, noi siamo così. Anche mio fratello mi ha chiamato col numero di Medhanie, per esempio», risponde al pm Ferrara, spazientito dall’italiano a tratti incerto del teste e, a un certo punto, dal fatto che sembri quasi tentennare prima di rispondere, quasi non fosse sicuro, guardando il legale della difesa. «Lei non deve guardare l’avvocato, perché le domande gliele sto facendo io. Guardi me o il tribunale. Quando gliele farà l’avvocato, guarderà lui», lo riprende infatti il magistrato. Ma il clima sembra ormai irrimediabilmente teso e anche fra le due controparti, accusa e difesa, non si fanno attendere toni piuttosto alti. La prossima udienza è stata fissata per fine mese. 


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