‘Ndrangheta stragista, il boss Graviano fra gli imputati Per l’accusa ordinò la morte di due carabinieri nel ‘94

Ha preso il via ieri davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria il processo scaturito dall’operazione denominata ‘Ndrangheta stragista, che vede sul banco degli imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, negli anni Novanta a capo del mandamento tirrenico dell’ndrangheta reggina. Dovranno rispondere dell’accusa di essere i mandanti degli agguati ai due carabinieri uccisi il 18 gennaio 1994 in Calabria, Antonio Fava e Giuseppe Garofalo. Un delitto, il loro, che secondo la ricostruzione dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia reggina si inserisce nel quadro più ampio della strategia di terrore messa in atto da Cosa nostra con gli attentati di Firenze, Roma e Milano, in accordo con le cosche dell’ndrangheta. Una vera e propria guerra allo Stato, fatta a colpi di autobombe e di fucili a canne mozze.

«Pronto centrale? Volevamo segnalarvi che una macchina sull’autostrada ci sta seguendo. Proviamo a richiamarvi più tardi». Dice così quella sera di 23 anni fa l’appuntato Garofalo, attraverso la ricetrasmittente. Quella chiamata, però, non arriva mai alla centrale. A uccidere lui e il collega che gli siede di fianco sulla gazzella sono 15 proiettili di una calibro nove. Un massacro. Le loro mogli ieri erano in aula, rappresentate dall’avvocato Antonio Ingroia. La presidente Ornella Pastore ha accolto la richiesta delle donne di costituirsi parte civile al processo. Insieme a loro, anche le famiglie di altri carabinieri presi di mira dai killer della mafia, ma sopravvissuti. Ammessi anche i Comuni di Reggio Calabria, Rosarno e Melicuccio, città di origine di Filippone, la Regione Calabria e il Ministero dell’Interno.

Intanto Graviano, intercettato fra il 2016 e il 2017 mentre parla con il compagno di ora d’aria e cammorista Umberto Adinolfi, tira in ballo proprio le accuse rivolte a lui per un suo coinvolgimento negli attentati degli anni ‘90, dichiarandosi estraneo: «Poi nel ’93 ci sono state altre stragi, ma non che era la mafia, iddi dicinu che era la mafia…allora che fa il governo…ha deciso di allentare il 41 bis», dice il 22 gennaio dell’anno scorso. «Se io avessi commesso un minimo reato io non avrei messo al mondo mio figlio…Perché l’indomani mio figlio…ma come..hai combinato questo macello…Giusto? Anche per rispetto di…io non credo a niente se non vedo…però non mi posso arrendere…Finché c’è vita c’è speranza», aggiunge nemmeno un mese dopo, cercando di smentire quanto raccontato dal pentito Antonio Scarano, morto nel 2004, uno dei suoi principali accusatori. «Troverò le cose che ho nel cervello delle due stragi…che li ordinò Matteo…questo è quello che so», alludendo probabilmente a Messina Denaro.

«Chiedo il deposito di due liste testi. Una è quella del 18 ottobre composta da 25 testimoni comuni a quelli della pubblica accusa, la seconda invece è una lista integrativa del 20 ottobre con testi non inclusi nella lista dei pm», dice in udienza l’avvocato Ingroia. I nomi sono quelli di Antonio D’Andrea, Massimo Ciancimino, Paolo Bellini e del maresciallo Roberto Tempesta. Degli ultimi tre il legale precisa che «vengono indicati perché riguardano i rapporti, le relazioni e i contatti che vi furono fra gli appartenenti a Cosa nostra e ufficiali dell’arma dei carabinieri nel periodo delle stragi ‘92, che a parere di questa parte civile ha costituito una concausa nel movente per il quale sono stati uccisi Fava e Garofalo, nell’individuazione proprio di due carabinieri anziché di due generici rappresentanti dello Stato – dice – Il fatto che vi fossero stati questi colloqui attinenti all’ormai famigerata trattativa fra lo Stato e la mafia è correlata a questa vicenda». Il processo riprenderà fra due settimane, con l’udienza di metà novembre


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