Mafia, i racconti del pentito Angelo Fontana «Cresciuto respirando l’aria di Cosa nostra»

«Io sono cresciuto respirando sin da piccolo l’aria di Cosa nostra». Lo chiamano u ‘mericano, per i suoi traffici di droga oltreoceano, ma per gli inquirenti è solo Angelo Fontana. Viene combinato (affiliato … ndr) dalla mafia nel 1990, ma svolge attività illecite sin dall’infanzia. Un destino forse inevitabile, se si pensa che fra i suoi parenti vanta nomi come quelli dei Galatolo e dei Madonia, dove i boss non sono mancati. Solo sedici anni dopo l’inversione di marcia e l’inizio di un nuovo capitolo: quello del collaboratore di giustizia. È il 7 febbraio 2006. Di lì a poco inizierà a raccontare i segreti con cui sin da piccolo è cresciuto. «Il punto di riferimento mio, così come per i Galatolo e i Madonia, era vicolo Pipitone. Molti degli omicidi della guerra di mafia degli anni ’80 furono consumati dentro a quel vicolo», racconta ai pm nel 2009. Lo «scannatoio» della mafia, lo hanno definito in seguito. Esiste un palazzo proprio in quel vicolo, «è stato costruito dalla mia famiglia e dai Galatolo – dice – abitavamo tutti lì».

Circonda l’intero immobile un terreno incolto. A presidio solo alcuni capannoni dall’aria dismessa, nessuno sembra entrarci da tempo, ma non è così: «Li usavamo per uccidere le persone», dice secco il pentito. Sulla sinistra del vicolo, invece, nel lato opposto su cui si affaccia la palazzina, c’è una piccola casetta: quello è il luogo delle riunioni di mafia e, perché no, all’occorrenza anche appoggio ideale per omicidi improvvisati. Tra quelle riunioni per organizzare piani e missioni per commettere gli omicidi eccellenti, ci sono anche quelle per decidere della morte di Giovanni Falcone. È il 1988, il giudice villeggia a Mondello e già il clan dell’Acquasanta progetta un attentato. Ma solo l’anno dopo, nell’estate dell’89, proverà a realizzarlo. A tenere le fila di quelle riunioni c’è Nino Madonia, capo mandamento: lo chiamano u dutturi, ma curare non è certo il suo mestiere. È da quella casetta che partono le numerose spedizioni verso Mondello prima e verso l’Addaura dopo.

Sono veri e propri sopralluoghi. A Mondello Fontana, insieme allo zio Vincenzo Galatolo e ad Antonino Madonia, trova posto come vedetta sul terrazzo di un palazzo di fronte alla villa del giudice. «Da lì era perfettamente visibile l’interno del giardino, potevamo studiare il modo per poterlo colpire». Tuttavia, le ipotesi formulate non reggono, nemmeno quella di utilizzare un elicottero telecomandato con cui sganciare l’esplosivo direttamente dentro la villa. Suggestivo ma poco pratico. «Subito dopo io ripartii per gli Stati Uniti, per cui non se ne fece più nulla». Ma passa un anno e gli uomini dell’Acquasanta ci riprovano. «Partimmo tutti da vicolo Pipitone». A trasportare l’esplosivo sono Nicola Di Trapani e Salvuccio Madonia, a bordo di un vespone bianco. Li segue a ruota u dutturi in persona, a bordo di un’auto dalla carrozzeria in plastica e mezza sfasciata, «la chiamavamo giardiniera, per ridere». Giunti a destinazione l’esplosivo viene piazzato sugli scogli, «sul lato destro della villa, guardando il mare, in una sorta di piattaforma dove stavano anche gli altri bagnanti».

Col telecomando in mano, nascosto dietro uno scoglio distante 50 metri, c’è il cugino omonimo Angelo Fontana, figlio di Pino. Nino Madonia invece controlla la situazione da una villetta collocata più in alto. Improvvisamente l’allarme e il segnale di rientrare nel fortino di vicolo Pipitone: proprio nei pressi del borsone lasciato sugli scogli viene vista aggirarsi la polizia. Quell’attentato, di fatto, non avverrà mai. O, almeno, non in quella villa. Il resto è storia. Tuttavia, nel 2014 l’avvocato Giuseppe Di Peri ritrova un foglio che dimostra l’obbligo di firma a New York per Angelo Fontana proprio nel periodo del fallito attentato all’Addaura. Ritrovamento che porta il pentito a ritrattare, ribadendo però che le cose si erano svolte in quel modo e che le aveva apprese da altri. L’inchiesta sull’episodio rimane in piedi e il cugino Angelo Galatolo, tra gli accusati da Fontana, rimane l’indiziato numero uno: è sua infatti la macchia di sudore ritrovata 21 anni dopo su una maglietta che era stata abbandonata accanto al borsone con l’esplosivo.

Nelle sue rivelazioni c’è anche l’ombra di quella presunta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra, per la quale oggi si sta celebrando un processo nell’aula bunker dell’Ucciardone. «Avevo notato che Scotto saliva spesso per Monte Pellegrino», dice ai pm riferendosi a Gaetano Scotto, attualmente indagato insieme ad Antonino Madonia e Giovanni Aiello per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio. «Ricordo che feci una battuta, come se Scotto facesse il guardone di coppiette. La prima volta Pipitone non mi rispose. In un’altra occasione mi disse che nella zona di Monte Pellegrino vi erano i servizi segreti e quindi mi fece capire che Scotto si recava lì. Altro non posso aggiungere».


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