E’ la corruzione che ‘sconsiglia’ gli investimenti in Italia e non l’articolo 18

RENZI E BERLUSCONI VOGLIONO SBARACCARE LO STATUTO DEI LAVORATORI PER RILANCIARE L’ECONOMIA. MA RACCONTANO SOLO GRANDI BUGIE

L’assurdità del dibattito pubblico italiano trova tante conferme nella diversità delle opinioni che, però, non vengono tenute in alcun conto dagli ambienti reazionari che nelle scelte del governo sono molto ascoltati. Costoro hanno stabilito a priori le opzioni prioritarie di governo, rispetto alle indicazioni che emergono dalla discussione di merito.

La dimostrazione lampante è l’indicazione acritica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, assunto quale parametro di impedimento alla crescita dell’economia italiana, degli investimenti (specialmente quelli stranieri) e di ostacolo alla crescita dimensionale delle imprese italiane. Verrebbe da dire: tutte balle. Siccome, però, a sostenere queste tesi sono i cosiddetti poteri forti, queste finiscono per essere verità assolute rispetto alle quali ci si deve inchinare e basta.

I poteri forti è un modo di dire generico ed indeterminato ormai di uso corrente, con il quale si tenta di nascondere tutti quei soggetti che hanno a che fare con la finanza e che sarebbe meglio definire massonerie, o cricche o camarille finanziarie, che hanno preso il sopravvento nelle decisioni macroeconomiche europee a tutto svantaggio delle economie produttive. Quelle massonerie che hanno ridotto l’Eurozona un’area di libera recessione economica ed occupazionale e con le loro scelte, imposte per esempio alla Banca centrale europea, hanno favorito la nascita e la diffusione in tutti i Paesi dell’Unione forti movimenti antieuropeisti.

Com’è facile intuire la crisi permanente dell’economia italiana ha tante cause, ma per gli ambienti più reazionari del nostro Paese, dai quali non va escluso il governo di Matteo Renzi, il superamento dell’articolo 18 è la causa prioritaria.

Sono vere e pressanti anche altre componenti che concorrono a ritardare la ripresa economica, ma di queste si parla come di questioni di contorno. Fra queste, oltre a ricordare la lentezza dei processi civili, conta pure in qualche misura la pesantezza fiscale, conta magari l’insufficienza infrastrutturale (es. la banda larga), ha qualche influenza anche il costo dell’energia, specialmente quella da origine fossile. E’ vero tutto questo, ma è marginale.

Nessuno, però, fa il minimo accenno alla piaga principale del nostro sistema economico e produttivo, rappresentata in maniera fondamentale dalla corruzione dilagante.

A sostenere questa tesi è la voce autorevolissima di un guru dell’economia internazionale, il quale – da studioso ed analista scientifico di fama, mediante la rappresentazione documentata con il concorso di innumerevoli tabelle e dati – attribuisce alla corruzione dilagante l’arretratezza strutturale dell’economia italiana e in qualche misura a quella degli altri Paesi dell’area meridionale dell’Eurozona.

La voce in questione è quella del professore Andrea Bolth, tutor di economia al Magdalen College di Oxford e per un decennio impegnato nell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico; il cui responso è frutto di analisi scientifiche e documentazioni approfondite ed illustrate nel corso di una sorta di “Lectio Magistralis” tenuta a Palermo nei locali di Confindustria Sicilia, organizzata dall’Ucid, l’associazione degli imprenditori cattolici.

Ebbene, la corruzione che contrassegna quotidianamente le cronache economiche, politiche e giudiziarie del nostro Paese, non viene minimamente considerata tra i fattori che ‘sconsigliano’ gli imprenditori esteri a considerare l’eventualità di investire in Italia.

Non staremo ad elencare gli episodi e gli scandali che sulla questione fanno i titoli di prima pagina dei quotidiani nazionali e locali. Sarebbe una inutile esercitazione retorica, ma non possiamo trascurare la vicenda che ha accompagnato lo sforzo della ex ministra della Giustizia, Paola Severino, che a fatica è riuscita a far varare dal Parlamento una legge anti corruzione, non solo sofferta e laboriosa nella sua elaborazione, ma anche assai travagliata nel suo percorso parlamentare

L’adozione di una legge che colpisca la corruzione e, magari, la prevenga è stata a lungo osteggiata dal Parlamento, cioè da coloro i quali, poi, quotidianamente pontificano sull’ostacolo rappresentato dall’articolo 18 agli investimenti stranieri nel nostro Paese. Guarda caso, sono proprio quelle aziende multinazionali che operano sul territorio globale, privi di impegno strutturale e duraturo, legate alle convenienze momentanee e per giunta assistite dai trattati segreti Usa-Unione europea tendenti a salvaguardare i loro interessi nel caso che tali convenienze dovessero subire modificazioni.

Al sessanta per cento delle imprese italiane lo Statuto dei lavoratori non si applica e con esso l’articolo 18. Questo stabilisce una questione ovvia e di elementare civiltà giuridica: se un licenziamento è immotivato è nullo, quindi non produce effetti e il lavoratore non è ritenuto licenziato e pertanto resta nel suo posto di lavoro. Punto. Multinazionale o no, Marchionne o non Marchionne.

Né il ragionamento del doppio regime, graziosamente battezzato dai commentatori ‘indipendenti’ “Apartheid”, rappresenta qualcosa di irrisolvibile. La dualità del trattamento giuridico dei lavoratori può essere facilmente annullata estendendo le garanzie dell’articolo 18 a tutti i lavoratori. Ovviando ad ogni presunta discriminazione tra lavoratori .

La dimostrazione più eclatante che le ragioni dei licenziamenti individuali non avvengono per ragioni economiche è testimoniata dalla vicenda Fiat riguardante i tre lavoratori licenziati per ritorsione sindacale e riammessi per legge da una sentenza del tribunale.

La Fiat di Marchionne li ha riammessi in fabbrica, ma non al lavoro, li ha regolarmente pagati senza utilizzarne le prestazioni, un costo a perdere, sostanzialmente per mortificarne il ruolo di lavoratori. Ciò dimostra che la questione afferente l’articolo 18 non è motivata da ragioni economiche, bensì da questioni di potere in fabbrica e nella società. Una questione di ruolo nella società, una questione riguardante il conflitto di classe e di potere.

Questo modo becero di orientare la pubblica opinione è il nemico pubblico principale della nostra democrazia ed è anche concausa delle grandi divisioni del nostro Paese.

Facciamo un esempio. Nel Mezzogiorno la corruzione, cioè l’arricchimento di pochi mediante l’aggiramento doloso delle norme della civile convivenza si chiamano ‘mafie’ o ‘criminalità organizzata’, nelle aree settentrionali si chiamano ‘bustarelle’ o malaffare.

Uno strumento che legittima il malaffare o la corruzione è di sicuro la depenalizzazione del falso in bilancio. Argomento di grande attualità politica trattandosi di questione posta all’ordine del giorno delle ‘riforme’ cui il governo Renzi ha messo attenzione. La discussione è aperta ma, a quanto pare, si vorrebbe chiuderla con una soluzione ambigua, nel senso di due diversi trattamenti a seconda della relazione che intercorre tra l’entità della falsificazione e la dimensione patrimoniale dell’azienda che ricorre alla falsificazione dei propri bilanci. Un principio mutuato dalla “dose per uso personale” riguardante il possesso di sostanze stupefacenti.

Ma, al di là delle soluzioni legislative che si realizzeranno, le domande da porsi sono: perché le aziende vengono più o meno ‘implicitamente autorizzate’ a falsificare i propri bilanci contabili? A quale uso sono destinate le somme non riportate nelle loro contabilità?

Non va trascurato il particolare che ai tempi di “Tangentopoli” la principali aziende protagoniste di quella stagione di corruzione generalizzata avessero i bilanci visionati da autorevolissime società di certificazione e che le transazioni avvenivano estero-su-estero. Ciò a significare che gli strumenti della corruzione sono legittimabili ancorché innumerevoli. Da qui la scelta di legittimarli nel modo più solenne, con legge dello Stato. Se poi le aziende sono quelle più grandi e più capitalizzate cosa volete che sia un gruzzoletto, che non ha grande incidenza sulla consistenza patrimoniale dell’azienda, ma viene messo da parte per qualsiasi evenienza ‘non preventivabile’?

E, ancora, chi volete che possa danneggiare se ad operare questi ‘risparmi’ è una azienda quotata in Borsa? Le operazioni che questi risparmi possono consentire alla stessa azienda di fare affari miliardari porteranno benefici anche ai risparmiatori che hanno investito in essa, vedendosi incrementare il valore delle azioni sottoscritte. Quindi i vantaggi sono per tutti.

Seguendo questi valori portanti della democrazia va da sé che i magistrati costituiscono un impedimento allo sviluppo economico e alla crescita complessiva del Paese. Da qui la necessità di riformare la Giustizia. Ma quando si indica la Giustizia non si fa riferimento alla legislazione che ne regola l’esercizio e ne accelera gli esiti. Per “riforma della Giustizia” è sottintesa la modifica dello status del magistrati e della loro funzione di vigili egualitari della rigorosa osservanza delle leggi. La ragione di questa opzione è semplice: l’osservanza delle leggi non deve essere uguale per tutti, per alcuni la legge è ancora più uguale che per altri.

Sono queste le vere ragioni per le quali gli stranieri non vengono ad investire in Italia.

Foto tratta da politica.nanopress.it

 


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