Pippo Cipriano, storia di un boss dei Nebrodi

26maggio2012-Il diciannove scorso di questo mese di maggio muore Pippo Cipriano, per tutti “Pippo”, all’età di sessantanove anni, per quasi venti anni capo della famiglia mafiosa di Brolo collegata ai clan di Tortorici e con ramificazioni con i barcellonesi, i catanesi ed i palermitani.

Tortorici, per intenderci, è un piccolo e boscoso paesino dei Nebrodi, assolutamente trafitto dentro le rocce dell’altipiano e costruito letteralmente sull’acqua: è un rumoreggiare continuo sotto la strada, sotto ai marciapiedi, sotto le case, un elemento che distingue certo questo particolare luogo, ma non solo per questo elemento naturale divenuto così noto. Nel passato per raggiungerlo occorreva molto tempo, bisognava percorrere una tortuosa strada piena di tornanti. Ora l’apertura di una superstrada lo rende facilmente raggiungibile: basta imboccarla la strada da Rocca di Caprileone, nei pressi di Capo d’Orlando.

Per inciso, è giusto dire che questa superstrada è stata stramaledetta da quelle persone civilissime che vivono a Capo d’Orlando, ridente centro turistico sulla costa, una cittadina che ha visto, in pochissimo tempo, aumentare a dismisura il fenomeno delle estorsioni: cosa, questa, che in queste contrade prima non si conosceva.

Ricordiamo con grande rispetto e ammirazione che proprio da Capo d’Orlando nascerà la prima, famosa, associazione antiraket, quella di Tano Grasso, anch’egli commerciante. Grazie alle loro denunce in pochi anni furono arrestati gli estortori dei clan tortoriciani. Si arrivò così allo storico processo che portò alla condanna dei boss che, di lì a poco, si pentirono. Con il pentimento di Orlando Galati Giordano, storico alleato di Pino Chiofalo, anche le cosche di Tortorici subirono un duro colpo.

In questo clima, con i più importanti boss arrestati, altri passati fra le fila dei collaboratori di giustizia, tra cui il “Pippo” in questione, altri sottoposti a pesanti condanne nel giugno del 1994 scattò l’operazione ‘Mare Nostrum’ che assestò un colpo mortale ai clan della provincia che, per molti anni, stentarono a riorganizzarsi, colpiti fin nelle fondamenta più profonde.

Tra questa grappoli di case grigie aggrappate sui monti che sovrastano Capo d’ Orlando, novemila anime circa, covava il fuoco della mafia e nessuno se ne accorgeva; a Tortorici un gruppo di pastori aveva deciso di uscire dal grigio anonimato di paese e lo fece creando due grosse organizzazioni contrapposte: quella dei Bontempo Scavo e dei Galati Giordano. Si specializzarono nelle estorsioni a commercianti ed imprenditori, principalmente “scendendo” dalla nuova superstrada nel centro di Capo d’Orlando, cittadina commercialmente molto vivace, e si fronteggiarono in maniera sanguinosa.

In quegli anni fioccarono gli omicidi, ma soprattutto gli attentati anche eclatanti. Clamoroso quello compiuto contro il posto di Polizia di Tortorici che fu gravemente danneggiato da una bomba. Un altro ordigno fu piazzato all’ingresso del Museo dei Nebrodi a Sant’Agata di Militello il giorno in cui si sarebbe dovuto tenere un convegno organizzato dall’Acis, l’Associazione antiracket del posto. In questo paese, senza che nessuno capisse perché’ , Vito Ciancimino chiese di essere inviato al soggiorno obbligato. Forse gli piaceva il clima, il paesaggio montano ricco di ruscelli, cascate e abeti. Ma nessuno si chiedeva altro. Né sull’ ex sindaco di Palermo, né sui contatti di allevatori e agricoltori che abbandonavano campi e mandrie e iniziavano a frequentare assessorati e mafiosi di Palermo e Catania.

Trasformazioni sostanzialmente facilitate da potentati politici pronti a scambiare i voti con piogge di contributi assegnati senza controlli, come è accaduto per quelli concessi per ogni mucca, ogni vitello con assegni pagati quattro, cinque, sei volte perché ogni animale nasceva in quattro, cinque, sei Comuni diversi, grazie anche a certificati di veterinari locali compiacenti. Stesso discorso per i noccioleti e per le giornate del rimboschimento, contagiati da un virus micidiale, quello che colpisce la cultura del lavoro e che insinua la certezza di poter guadagnare senza fatica. Finche’ la Cee non se ne accorse, con la conseguenza che sia lo Stato che la Regione furono costretti a tagliare i contributi. Ma se le vacche finte dei Bontempo o dei Galati non fruttarono più furono trovati altri sistemi: uno di questi è il racket, a cui dedicò il suo tempo lo stesso Cipriano.

Riverito e rispettato, un autentico “boss”, Cipriano decise improvvisamente di pentirsi nel 1995 e diede un contributo determinante per le operazioni “Mare Nostrum”, “Romanza” e “Icaro”, di cui tutti certamente abbiamo sentito parlare.

Giovane di grandi speranze, pescatore sin da ragazzo, amava la bella vita dividendosi successivamente tra Bologna e Roma. Per tanti, a Brolo, come a Tortorici, fu un amico, anzi, un buon amico e tanti sono quelli che ne hanno condiviso gli anni della gioventù, quando andava a pescare, a calare il “conzo”, a prendere i pescespada al largo delle Isole Eolie. Poi scelte difficili, sbagliate: contrabbando, arresti, le evasioni a Nove Colonne, la vita trascorsa ai margini di una società della quale amava lo champagne, la buona tavola, i regali ed i quadri e nella quale non gli era difficile entrare e condividerne i favori.

Con una vecchia Fiat 125 color bianco faceva il guardiano notturno, negli anni ‘80, presso una ditta di costruzioni, che poi, probabilmente, di giorno, taglieggiava: la guardiania, cioè, il primo passo verso l’estrinsecazione del vero mafioso. Erano anni, quelli, che a Brolo si sparava, si piazzavano le bombe, le macchine andavano facilmente a fuoco, i grandi latitanti soggiornavano in casolari abbandonati o mangiavano nelle trattorie di un nascente lungomare, sbarcavano sigarette di contrabbando e divise compiacenti. Si manteneva una “pax” artefatta per permettere, facendo carriera, di avere una zona franca per stipulare accordi, negoziati, condurre trattative, mentre crescevano i colossi dell’edilizia privata ed i tortoriciani allargavano le loro zone di potere e influenze e dalle cave della costruenda autostrada, venivano trafugate dinamite e micce che servivano per la pesca di frodo, i “botti” per dirimere le diatribe.

Pippo Cipriano era sempre lì, anche quando non c’era. Con i suoi sistemi di sicurezza, fatti di cani e canarini, i suoi uomini, che considerava “fratelli”, a guardargli le spalle, era sempre attento, osservava, controllava, muoveva i fili e passava indenne nei vortici che regolarizzavano i clan del tempo. Poi la guerra di mafia, scoppiata tra i clan dei Bontempo Scavo e dei Galati Giordano: 16 morti ammazzati nel giro di un anno e mezzo, dalla fine del 1989 alla prima metà del 1991.

Pippo Cipriano, con la sua abile strategia da autentico “pezzo da 90” che era, seppe tenere lontana la sua Brolo dalla disputa sanguinosa. Ma allora ci furono le condanne, qualcuno aveva detto troppo ed a un posto di blocco i militari fermarono e arrestarono parecchi suoi uomini di fiducia. Il “padrino” di Brolo sapeva tanto di quegli anni e sapeva tutto della politica sommersa di Brolo: il suo potere era grande, lo gestiva bene ed era vicino alla cosca dei Bontempo Scavo per la quale controllava il giro di estorsioni e le bische clandestine.

Uomo controverso, che aveva sul cuore tatuata la mamma, quella che viveva nei bassi del Castello dei Principi di Lancia, che lo aspettava sempre e che lui andava a trovare anche quando era ricercato dalle forze dell’ordine. Controverso il suo rapporto con i barcellonesi, con i catanesi, meno con i tortoriciani, ma saldi quelli con le famiglie di Palermo e San Mauro Castelverde (vicino Cefalù) dove primeggiava la figura del clan dei Farinella, guidato dal padre Giuseppe e dal figlio Domenico.

Poi, nella primavera 1995, Pippo Cipriano, all’improvviso, divenne pentito. Forse scelse il tempo giusto per farsi proteggere… il suo tempo. Le sue dichiarazioni furono determinanti per la seconda tranche dell’operazione “Mare Nostrum”, quella scattata il 6 novembre 1995 con 35 arresti, dopo i 223 del 6 giugno ’94 dove egli stesso era stato arrestato e per le successive operazioni “Romanza” e “Icaro” nella quale ultima le rivelazioni dell’altro pentito brolese, Santo Lenzo, che aveva ereditato lo scettro di Pippo Cipriano, almeno per la gestione delle estorsioni, ebbero grande rilevanza.

Dopo il pentimento Pippo Cipriano sparì da Brolo, da tutti, dalla grande famiglia da cui proveniva, con la moglie, i figli. Una sua figlia viene ricordata come tra le migliori studentesse in assoluto, a livello di rendimento e profitto, dell’Istituto Tecnico commerciale “Merendino” di Capo d’Orlando. Pippo Cipriano entrava ed usciva da processi importanti e vi rientrava anche attraverso sviste giudiziarie come, recentemente, nel caso dell’uccisione dell’operaio Calogero Franco, di Capo d’Orlando, referente del clan dei Galati Giordano nel centro orlandino, ucciso nella notte fra il 28 ed il 28 giugno 1990 sulla strada da San Gregorio verso il centro. Per un errore procedurale era stata richiesta la riapertura del processo che vedeva Pippo Cipriano basista del gruppo di fuoco e si sapeva che stava a Roma perché qualcuno lo incontrava, ed era tranquillo, come la sua famiglia. Poi la sua famiglia tornò nel paese d’origine, come gente comune che oggi lavora, sorride e pensa al futuro, bravissime persone.

Se n’è andato in silenzio, con regolari manifesti luttuosi appesi a Brolo e a Tortorici. Restano i regali fatti agli amici, i quadri di Romano Mussolini, le “verette dell’oro alla patria”, il suo senso dell’onore e dell’amicizia, i suoi ricordi verso un vecchio maestro, o i rampolli ora cresciuti, anzi già anziani, di uno dei notabili del paese, il suo saper star fuori, anzi dire no ai giri sporchi della droga; alla fine aveva un suo codice, e piaceva alle donne.

Un soggetto controverso, di quelli che se non fosse stato criminale avrebbe potuto avere l’apprezzamento persino di Giovanni Falcone che non ha mai nascosto di subire il fascino di certi “padrini” quando questo appellativo comportava essere uomini d’onore, avere un codice da rispettare. In qualche parte del suo libro “Cose di Cosa Nostra” persino ammise di avere imparato qualcosa dagli stessi mafiosi, quando scrisse: “Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere: quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale!”.

Anche Gesualdo Bufalino intuì che il fenomeno rimane problema culturale e secondo il suo parere per sconfiggere la mafia è semplicemente necessario un esercito di maestri elementari.

Insomma tutto a regola d’arte, come dentro a un film di Sergio Leone, trasbordato in Sicilia.

Foto di Tortorici tratta da nuke.pattiweb.net

In alto adestra un’immagine di Brolo tratta da foto-sicilia.it

A sinistra un tratto dell’autostrada Palermo-Messina tratta da greenme.it

 


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