Messina provincia ‘babba’? Ma quando mai!

Messina e la sua provincia godono da tempo immemorabile di un appellativo quanto mai falso e fuorviante, quello di “babba”, cioè stupida nel senso di “innocente e bonacciona”. A Messina la mafia non esiste, a Messina è tutto tranquillo, non succede mai niente, non ci sarebbero neanche le capacità per dar vita a forme di criminalità organizzate.

In realtà, con quest’alibi, i messinesi si sono nascosti a lungo dietro un velo di omertà e la mafia ne ha approfittato per compiere indisturbata i suoi sporchi giochi al riparo dai riflettori.

Ricordiamo tutti le puntate del programma di Lucarelli “Blu notte”, in onda ogni domenica sera su Rai Tre quando ha riproposto “il caso Messina” addentrandosi nelle trame della mafia e del potere nella città peloritana per cercare di sciogliere o comunque di riportare l’attenzione su quello che, per usare le stesse parole di Lucarelli, “rimane un enigma da decifrare”. Con il solito stile coinvolgente e preciso Lucarelli ha ricostruito tre storie che hanno, negli anni Novanta del secolo scrso, sconvolto la città e la provincia di Messina, tre omicidi mafiosi cui ancora oggi manca giustizia: la 17enne Graziella Campagna, il giornalista Beppe Alfano e il professore Matteo Bottari.

Attraverso lo stesso programma, tornò alla ribalta lo scandalo universitario che venne soprannominato “verminaio” dall’attuale presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, allora vice-presidente della commissione parlamentare Antimafia, ed è stata puntata l’attenzione sulla mafia barcellonese e sul covo di latitanti che sono i villaggi del Messinese tirrenico. Inquietanti e drammatiche, le storie di Graziella Campagna, Beppe Alfano (esponente dell’MSI e corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto per “La Sicilia”) e Matteo Bottari, tre storie legate tra loro e mai definitivamente chiuse.

Ancora oggi a Messina si muore per mafia, come accaduto al suicida prof. Adolfo Parmaliana, una mafia altamente vicina alla “Messina bene”, alla città di imprenditori, amministratori, politici, commercianti e liberi professionisti che ne dovrebbero costituire l’aspetto culturale e di crescita. Una mafia simile a molte altre mafie: a quella di Palermo, a quella di Catania, alla ‘ndrangheta Calabrese e alla camorra Campana, alla sacra corona unita Pugliese o alle mafie del Nord e del Centro Nord, o a quelle straniere. Una mafia che per anni ha sfruttato l’etichetta di “provincia babba” per poter compiere le proprie losche magagne di traffici di armi e stupefacenti, di appalti e corruzioni al riparo dalle attenzioni di mass-media, opinione pubblica e forze dell’ordine.

Tutto si può dire di Messina, della sua provincia, di Milazzo e Barcellona Pozzo di Gotto, tranne che siano fesse.

Graziella Campagna, Beppe Alfano e Matteo Bottari, rispettivamente, una ragazza di diciassette anni, un giornalista e un professore universitario di Medicina sono stati uccisi, tutti e tre: chi aveva scoperto per caso troppe cose sui latitanti di Cosa Nostra, chi voleva denunciare sui giornali gli intrighi delle amministrazioni infiltrate, chi combatteva il verminaio degli appalti all’Universita’.

Graziella Campagna era una ragazza di 17 anni di Villafranca Tirrena che lavorava in una lavanderia, ebbe l’unica colpa di trovare in una giacca da lavare un quadernetto appartenente a tale ingegnere Cannata; dal quaderno risultava che l’ingegnere era in realtà Gerlando Alberti jr, mafioso palermitano latitante che era sfuggito alla condanna del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, e per questo motivo la povera ragazza venne assassinata . Oltre al gesto efferato , la cosa più sconcertante venuta a galla fu la collusione tra politici , magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine che, dapprima cercarono di insabbiare, poi di depistare ed infine di screditare le indagini. Per questo sistema di connivenze tra mafia ed istituzioni locali si è coniato il termine di “rito peloritano”. La vicenda, dopo 23 anni, è arrivata al 2° grado di giudizio ma soltanto grazie alla caparbietà del fratello carabiniere di Graziella e dell’avvocato Fabio Repici, con la condanna all’ergastolo per il mandante e l’esecutore del delitto.

Beppe Alfano era invece un giornalista che scriveva per ” La Sicilia “; un uomo integerrimo e considerato addirittura stacanovista per lo zelo e la serietà con cui portava avanti il suo lavoro. Si era appassionato e gettato a capofitto in una inchiesta sulla mafia a Barcellona Pozzo di Gotto, questo l’errore che gli costò la vita: aveva portato alla luce gli scandali legati all’AIAS , il traffico delle arance e quello internazionale delle armi. In tutti i casi su cui indagò, aveva trovato un forte collegamento tra istituzioni, mafia e massoneria. Ma probabilmente la causa del suo omicidio fu di aver scoperto che il superboss di Cosa nostra catanese, Nitto Santapaola, trascorreva la sua latitanza proprio a Barcellona, verosimilmente a 30 metri da casa sua. Il delitto fu commissionato dal boss barcellonese Gullotti. Solo dopo 10 anni di mistificazioni varie è stata attribuita la chiara matrice mafiosa dell’omicidio.

Matteo Bottari, medico e professore universitario, fu assassinato a Messina in una fredda notte del gennaio 1998; il suo omicidio scatenò un polverone tale che venne inviata in città la commissione antimafia, allora presieduta da Ottaviano Del Turco e Nichi Vendola. Fu proprio Vendola che per descrivere la situazione messinese utilizzò un termine poi diventato famoso, appunto : verminaio. Il professore universitario ucciso con modalità tipiche della ‘ndrangheta calabrese, pagò probabilmente il suo legame di parentela con l’allora rettore dell’Ateneo messinese Cuzzocrea. Le indagini infatti presero la direzione dell’università e del Policlinico universitario, dove si scoprì una realtà agghiacciante: sia la ‘ndrangheta che ‘cosa nostra’ locale erano inserite a tutti i livelli della vita cittadina e si facevano sentire con estorsioni, compravendita di esami, minacce, omicidi e gambizzazioni.

A detta del ROS e del presidente nazionale antiracket, Tano Grasso, il tessuto sociale messinese, permeato di mafia proveniente da Palermo, da Catania e da Reggio Calabria utilizza sistemi di una ‘cosa nostra’ unica nel suo genere e per certi versi atipica: fa affari alla maniera siciliana, controlla il territorio come la camorra napoletana e uccide come la ‘ndrangheta calabrese. Le propaggini palermitana e catanese di ‘cosa nostra’, hanno rilevato gli investigatori, privilegiano sempre, in loco, “gli interessi economici, tanto da creare una struttura finanziaria ed imprenditoriale funzionale al reinvestimento dei capitali, provento, in buona parte, di attività illegali; una mafiosità che risulta presente attraverso la “famiglia” di Mistretta, il “clan” dei Barcellonesi e l’alleato “clan” dei Tortoriciani, che si dice essere il più feroce. Anche la ‘ndrangheta estende i suoi interessi nella provincia attraverso affiliati delle cosche di Africo e Roghudi, nonché alla cosca Strangio relativamente al traffico di droga.

Insomma, come dire che l’apparenza e la realtà sono due elementi che sconfinano l’uno dentro l’altro senza soluzione di continuità; un territorio così apparentemente pacifico e ricco di naturale bellezza che nella memoria collettiva crea ben altri rimandi, mitologici, religiosi, culturali, ecologici, gastronomici e che tra Caritas, Vescovato e Tribunale (a Patti) potrebbe illusoriamente donare la sensazione di trovarsi nella culla dell’umanità: quella di cui parliamo è la “costa greca”, dove l’atavico e orgoglioso insediamento siculo finisce dove inizia la linea d’ombra che stacca l’Etna, quando il sole è allo zenit.

Foto di prima pagina tratta da veditour.it

Nella foto sopra (tratta dasiciliaplanet.net)una panoramica di Messina

Foto di Graziella Campagna tratta da ammazzatecitutti.org

Foto di Beppe Alfano tratta da it.wikipedia.org

Foto di Matteo Bottari tratta da santagatando.wordpress.com


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