Ritratto in chiaroscuro dei ‘signori’ dell’Ars

Quanto sanno di antico le manovre dei partiti politici siciliani. Sembra che per ciascuno il tempo non sia passato e che, per essi, le persone siano ancora poco istruite o poco informate, pronte a pendere dalle loro decisioni da cui ogni forma di futuro pare bandita.
Chi, venuto di molto lontano, osservasse dall’esterno la composizione umana dei principali partiti che siedono a Sala d’Ercole resterebbe esterrefatto. Estrazione sociale modesta non compensata da storie individuali di particolare valore fuori dallo specifico ambito, livello di formazione spesso inferiore a quello di semplici impiegati, capacità di eloquio carente e alcun rispetto per il coretto utilizzo della lingua italiana, per non parlare dei pesanti accenti locali, da quello palermitano, al catanese, al ragusano, al messinese ecc…
Pervenuti al seggio “parlamentare” (sic!) in base ad accordi tra potentati locali, all’esito di camarille giocate in fumose stanze, sedi di associazioni sconosciute o di cooperative sociali, all’ampia disponibilità di risorse economiche di cui non sempre è chiara l’origine, molti di essi fondano la propria legittimità in esperienze pregresse in amministrazioni comunali, provinciale quando non di quartiere, dove da anni non si elaborano pensiero politico, visioni di sviluppo, progettualità alte.
Da bravi ‘ascari’, nella migliore tradizione dell’Assemblea regionale siciliana, la maggior parte di essi non è intellettualmente indipendente, preferendo esercitare la più comune “furbizia” tanto apprezzata di siciliani al posto di altre qualità. Quasi tutti vivono in equilibrio tra il desiderio di compiacere il proprio leader “personale” e vincere così per fedeltà e il tentativo di clamorose disobbedienze che ne mettano in evidenza, in mancanza i altri requisiti, la propria figura all’attenzione di media di livello modesto e che vivono di tali briciole che chiamano “notizie”.
Non ho fatto e non farò alcun cenno allo loro onestà o moralità, perché essa è per molti di loro un argomento da proclamare ad un elettorato sempre più consapevole che si tratta di passaggi obbligati, di “cose che si devono dire”, tanto poi proprio quell’elettorato chiederà comportamenti poco trasparenti, pur di ottenere privilegi personali o di categoria.
Tale classe politica sta dunque al proprio elettorato in un rapporto di totale corrispondenza: abbiamo cioè questi rappresentanti poiché essi sono lo specchio spietato dei rappresentati, abituati da secoli alla cultura della ricerca di un protettore, di un santo in paradiso, anche quando poco è rimasto da proteggere e il “paradiso può attendere”.
Ne è la riprova il recente tentativo di stabilizzare ulteriori centinaia di precari, portato avanti pur perfettamente consapevoli del fatto che qualsiasi Commissario dello Stato in buona salute mentale ne avrebbe respinto anche la sola idea. Un teatrino, dunque, utile a rassicurare l’elettorato circa la propria “affidabilità”, scaricando la colpa su terzi che non hanno certo il problema del consenso.
Così come un teatrino appare l’attuale manovra dell’UDC siciliana, stagno immoto da cui non si alza mai alcun cigno, che agli strateghi di partito appare come una genialata, degna del livello intellettivo dell’Aspen Institut o del board dello Studio Ambrosetti, quando è invece un vecchio trucco per alzare il prezzo e far pesare il proprio ruolo davanti al progressivo dilaniarsi del PD e all’evoluzione ectoplasmatica dei resti di AN ed MPA.
Quest’estate osservavo dalla terrazza della casa vicino Palermo dove villeggio un noto e per molti versi apprezzato ex Presidente della Regione, ovviamente democristiano, fare la propria salutare passeggiata pomeridiana. Minuto di costituzione e ulteriormente “ridotto” dalla veneranda età, percorreva, il sentiero con passo regolare e con le mani strette dietro la schiena il sentiero, novello Don Abbondio, in un silenzio contemplativo. Cercavo, allora, di immaginare quali volti, quali ricordi, quali emozioni gli affollassero la mente lucidissima e soprattutto quante volte leggendo sui giornali alcuni nomi di suoi successori nel Parlamento si fosse anche lui chiesto: “Carneade, chi era costui?” . Neanche per un attimo mi è venuto in mente di paragonarlo agli attuali inquilini dell’Ars che appaiono, spesso anche nei gesti e nelle posture, come gli omuncoli che gli alchimisti cercavano di produrre in provetta o come gli strani gnomi partoriti dalla fantasia di Casimiro Piccolo – il notturno visionario e misantropo fratello minore del poeta Lucio – raffigurati nei famosi acquerelli che lo fecero conoscere, solo dopo la morte, al mondo che esisteva fuori dai cancelli della Villa di Capo d’Orlando che egli non volle mai varcare per propria e incrollabile scelta.
Inconsapevoli figli di un dio minore, i politici siciliani si aggirano nel palazzo che fu di Federico, discutono in una sala dedicata ad Ercole, ricevono in sale dai fantasiosi colori nell’incapacità di intitolare le stesse a uomini e donne siciliane che pure non sarebbe difficile individuare nella nostra storia migliore, se solo il risuonare quotidiano di quei nomi non inducesse in quei luoghi sentimenti di vergogna e rimproveri di inadeguatezza.
Cuore del sito è la Cappella Palatina che, piuttosto che ispirare alti pensieri nei deputati, ne ostacola sovente il libero passeggio sotto le arcate vetuste popolate da turisti. L’unico manufatto che essi venerano è il trono di Ruggero che il sovrano volle venisse costruito proprio di fronte e quasi alla stessa altezza prospettica del Cristo Pantocratore che decora l’abside per essere il primo ad adorarne l’immagine e non, come qualche deputato crede, per essere “alla pari”. Su tutti vigila la Torre Pisana, ultimo baluardo del munito complesso, in cui ha sede l’ufficio del presidente dell’Assemblea regionale siciliana e che ha le proprie fondamenta proprio nell’acropoli della Città.
Affascinati da una sede così maestosa e turrita, sopraelevata rispetto al piano stradale, i rappresentanti del popolo siciliano credono di essere eterni e tutte le volte che rifletto su ciò non posso non pensare all’analoga illusione provata dei numi affrescati nelle volte di quel Palazzo Monteleone, citato da Tomasi di Lampedusa, inconsapevoli dell’imminente fine che per essi si preparava nelle officine di Pittsburgh.
Forse il primo passo del rinnovamento della storica Assemblea dovrebbe coincidere – unitamente a volti nuovi , più consapevoli del presente e meglio dotati per costruire il futuro – con il rilascio di tale sede alla fruizione pubblica e turistica, scegliendo in sostituzione un luogo meno maestoso e più funzionale ma, soprattutto, meno dannoso per le fantasia dei sui fruitori istituzionali. Non sempre infatti l’abito fa il monaco e, allo stesso tempo, quasi mai un palazzo fa i proprio re, semmai il contrario.
Buon anno allora ai deputati dell’Ars e che sia l’ultimo in quelle stanze. Per il resto, salute, fortuna e gloria… altrove.

 


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