Palermo, ripensando alla ‘Primavera’

Parafrasando uno dei più noti saggi pubblicati negli anni ‘80 su Palermo (“Palermo Palcoscenico d’Italia” del 1986, che conservo gelosamente), verrebbe oggi da domandarsi perché Palermo assurse in quegli anni alla cronaca delle prime pagine di tutti i giornali italiani, conquistando sovente importanti spazi anche in quelli internazionali.

 

Perché l’espressione di Padre Ennio Pintacuda diventò la cifra di un paradigma di cambiamento irrinunciabile e irrevocabile? Perché l’attenzione del Paese si focalizzò su una delle tante, grandi città italiane, da sempre relegata però in luoghi comuni o in stereotipi letterari o cinematografici?

 

La risposta, pur non semplice, è probabilmente nel fatto che a Palermo in quegli anni si scontrarono due diverse visioni della politica, della società, della città, con molto anticipo (il solito destino di alcune delle cose siciliane) rispetto a molte altre, importanti, realtà metropolitane.

 

Il primo e più importante di questi scontri fu il cosiddetto scongelamento del consenso: davanti alle emergenze poste dalla criminalità organizzata e dalle continue “mattanze”, il voto di appartenenza, quello cieco ed ideologico si “scongelò” polarizzandosi su due nuovi fronti mai considerati tali nel mondo dei partiti: l’onestà e la disonestà. Su quella che poi Enrico Berlinguer chiamò la Questione Morale”, si spaccarono partiti e correnti e ciò sia nella Democrazia cristiana che nel Partito comunista, entrambi non immuni da infiltrazioni mafiose, collateralismi, concorsi più o meno esterni alla mafia, reciproca copertura nel mondo degli appalti, pur regolata dalla ferrea contabilità del ‘manuale Cencelli’.

 

Dallo scongelamento del voto prigioniero nei recinti dei partiti nacquero Movimenti e Associazioni che consentirono a uomini e donne di formazione diversa di superare gli steccati e di riconoscersi nella costruzione del nene comune. Nessuno si illuse di distruggere i partiti, ma moti si impegnarono sinceramente a fare della fase movimentista l’anticamera di una nuova etica della politica, vivendo quella fase come un ponte tra due diversi continenti, una rete di transito su cui costruire nuove identità e non nuove appartenenze.

 

La seconda storica collisione si ebbe sul piano sociale ed ebbe per protagonisti molti dei giovani della buona borghesia, avviati tradizionalmente alle professioni paterne o, nel caso della politica, ad essere posti “sotto le ali” di esponenti navigati, in molti casi onesti, che ne avrebbero curato l’apprendistato e, se del caso, fattone i propri delfini. In una tarda versione del ‘68 (siamo pur l’unico posto al mondo dove esiste il tardo gotico detto chiaramontano o fiorito e nella terra dove i mandarini migliori si chiamano “tardivi”) quella generazione, o meglio ampia parte di essa, decise di rompere un silenzioso patto generazionale, assumendo stili di vita, comportamenti e linguaggi che li portarono verso “sinistra”, intendendo con ciò un percorso di trasgressione verso nuove concezione della vita e della società.

 

Templi sacri ne furono luoghi come Teatro Libero, i cine club La Base e l’Antorcia dove si rappresentavano testi e film che mostravano altre percezioni, altre possibilità, all’insegna di quel “Ribellarsi è giusto” che fu la Bibbia anarchica di un’intera generazione. In quegli anni a Villa Sperlinga la popolazione giovanile era ben altra da quella di oggi, tra lo scandalo dei benpensanti, compreso qualche illustre esponente delle Forze dell’ordine o della Magistratura che tremava ad ogni retata, temendo di trovare nel mattinale il nome del proprio figlio tra quelli dei fermati.

 

La terza trasformazione, epocale come si dice oggi, fu la percezione delle città come spazio di cui riappropriarsi in ogni aspetto, dalle superstiti bellezze ambientali e monumentali alle macerie del ‘43, dalle strade vetrina ai sordidi vicoli del centro storico dove molti di noi fecero l’impossibile per prendere in affitto (collettivo) un “quartino” pericolante e privo di acqua corrente. Era il segno di una voglia di appropriazione delle proprie radici, del proprio dialetto, della propria identità, spesso negata in casa dove attenti e severissimi genitori si astenevano con attenzione da ogni uso del dialetto, ammonendo al riguardo l’eventuale personale di servizio (non c’erano ancora le colf) generalmente proveniente dalla provincia, perché nessuna eventuale inflessione madonita o capaciota guastasse il purissimo toscaneggiare dei propri pargoli. E fu un fiorire di dialetti, di primissime suggestioni etniche e popolari, di scoperte sublimi di una gastronomia popolare sconosciuta, somministrata in taverne mal frequentate e in bettole dalla dubbia igiene. Rifugi romantici alla massima potenza furono Piazza Marina, allora buia e misteriosa, abitata dal fantasma dello Steri in rovina e del poliziotto Jo Petrosino, prima vittima della Mano Nera (l’antenata di Cosa Nostra in Usa), come pure la Vucciria ancora fresca dei pennelli di Renato Guttuso e l’Albergheria dove incontrare nel privato gli colleghi che in Università avevano quegli accenti così strani e tanto diversi dal nostro.

 

Su queste tre grandi scomposizioni si costruì una nuova Città, un palcoscenico in cui irruppero anni dopo parole nuove, messaggi forti, valori mai dichiarati per la cultura palermitana e praticati alla politica quali la stima per gli esponenti della Legalità, fino ad allora chimati “sbirri” o “pula” anche dai ragazzi di “buona famiglia”, il sentimento di laica solidarietà interclassista tra i giovani, una nuova considerazione per il mai abbastanza compreso universo femminile, con le sue ombrosità, irrequietezze e smaniosità in cui cresceva e si sviluppava quella piena realizzazione che oggi lo contraddistingue.

 

Su quel palcoscenico, guardato da tutta Italia con interesse, cresceva un nuovo modo di essere città, unica al mondo perché diretta emanazione della Medina interculturale in cui era cresciuto scalzo e “malcreato” Federico II, o delle grandi strade confluenti nel Teatro del Sole in cui i figli degli ultimi nobili giocavano con i coetanei generati dagli affittuari delle botteghe poste al piano terra delle nobili magioni o, ancora, si aprivano centri sportivi e gruppi scout nei quartieri oltre la trincea della Circonvallazione (raramente chiamata Viale Regione siciliana) in cui la generazione dei propri padri aveva confinato gli abitanti dei bassi di Ballarò o del Cassaro ‘morto’, sperando nell’affare del millennio.

 

Su quel palcoscenico giganteggiavano figure di maestri di matrice diversa, ma uniti dal comune amore per la Città, per la sua gente e per quel genius loci fatto di miseria e di nobiltà e, al tempo stesso, di solidarietà vera e non ostentata. Lo calcavano uomini come Padre La Rosa e Pio La Torre, Padre Ennio Pintacuda e Giacomo Terranova, il Cardinale Pappalardo e Piersanti Mattarella, Marcello Cimino e Boris Giuliano, donne come Letizia Battaglia, simbolo di clamorose rotture con il perbenismo borghese e impietosa fotografa della disperazione delle donne dei mafiosi. O, ancora, come Elvira Sellerio e Giuliana Saladino, eroine laiche della rivincita femminile nella vita culturale e civile cittadina, finall’ra negata al loro genere. E tante e tanti altri attori del cambiamento le cui ombre sembrano ora retrocedere sempre più opache nel ricordo collettivo.

 

Su tutto, un giornale d’assalto, scarsissimo di mezzi e ricchissimo di intelligenze, caratteri e personalità che hanno segnato due generazioni di intellettuali e di cronisti e un immenso Teatro, “il secondo o terzo d’Europa”, muto e silenzioso come il fantasma della monaca che si diceva lo abitasse.

 

Eppure dal quel palcoscenico muto, polveroso e degradato sarebbe sorta, prima in sordina e fra lo scherno dei “poteri” che contavano (‘ascari’ dei partiti romani, Regione, Banche, Esattorie) e poi sempre più forte in un sventolare di “lenzuoli”, la Primavera del risveglio, del sogno diventato realtà, dell’idea divenuta Progetto e Statuto. Su quel Palcoscenico cui tutta Italia guardava ormai stordita e stupita, avrebbero diretto Claudio Abbado e “danzato” Pina Baush, avrebbero ricevuto la cittadinanza onoraria il Dalai Lama e Hans Gorge Gadamer e si sarebbero incontrati mondi, culture, religioni nel luogo che un tempo era chiamato Lo Spasimo.

 

Oggi quel Palcoscenico appare ancora una volta oscuro, popolato di spettri, mostri e fantasmi e i rari custodi dalla barba incolta ti pregano di non insistere a volerne visitare i saloni perché hanno vergogna dello stato i cui sono ridotte tappezzerie e imbottiture, lordate da egoismi, disonestà e somma stupidità.

 

Eppure, proprio quando ogni speranza sembra spenta, dal fondo del retropalco sembra di udire gli accordi di una melodia dolce e malinconica che, a poco a poco, prende coraggio e si alza in un largo maestoso che annunzia un nuovo futuro possibile per i figli di quella Città che un giorno fu definita “felicissima” e che merita, nonostante tutto, di avere il diritto, contro ogni evidenza, di tornare a sperare. Palermo aspetta col suo ultimo respiro e non è più in grado di attendere oltre.


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