Palermo, il tramonto d’una città

Molto più drammaticamente che nel resto del Paese, Palermo vive la più profonda crisi della propria storia civile. Deprivata di ogni risorsa economica e di ogni speranza in un nuovo rilancio dell’Autonomia siciliana, la città appare incapace di evolvere verso una dimensione metropolitana ed è isolata nel contesto nazionale ed europeo. Quella che fu una città simbolo del bene e del male langue oggi alla ricerca di soluzioni che configurino un’identità nuova fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi.

Nel prologo allo Statuto Palermo si definisce “antica capitale del Mediterraneo”, ma oggi è solo una città satellite dell’impero di Raffaele Lombardo, sottoposta ai suoi capricci ed ai molteplici appetiti del cerchio magico che lo circonda. La crescente disoccupazione giovanile, l’emigrazione dei giovani più promettenti, il degrado delle periferie e ora anche del Centro storico e dei quartieri residenziali, costellati di cartelli che ne mettono in vendita molti appartamenti prestigiosi, la città si presenta priva di qualsiasi visione del proprio futuro. In mancanza di un modello di sviluppo coerente con la propria vocazione storico culturale, fioriscono progetti ambiziosi, intriganti anche, ma scollegati da un piano complessivo che punti a rivitalizzare le poche risorse ancora rimaste.

L’ipertrofia della burocrazia locale, unitamente al buon livello delle pensioni pubbliche e all’indubbio contributo dell’economia sommersa se non criminale, ne sostengono ancora i consumi e permettono che le prestigiose vetrine di via Libertà siano ancora aperte, insieme a gioiellerie e concessionarie di marchi automobilistici da sogno. I numerosi pubs, retaggio di una strategia volta a trasformare il Centro storico nel motore dello sviluppo economico cittadino, continuano ad essere affollati di giovani e meno giovani che vi spendono (sempre meno) remunerazioni da precari sottratte ad ogni risparmio per l’incerto futuro o a possibili micro investimenti di auto-imprenditorialità.

I Palazzi della politica degradano non solo moralmente ma anche fisicamente con arredi mai restaurati, sale spente, atri trasformati in posteggi dei (tanti) dipendenti. Su tutto grava una cappa grigia di pessimismo e di attesa che neanche le straordinarie belle giornate del nostro autunno riescono ad attenuare. Giovani sempre più scettici continuano a frequentare l’Università, sempre più consapevoli che stanno investendo in formazione senza lavoro; migliaia di disoccupati affollano le aule della Formazione professionale attratti più dalla diaria che dall’intento di acquisire professioni da cui trarre un futuro reddito e confortati dal sentimento di solidarietà verso i propri “docenti” che pur devono campare la famiglia.

Gli altri giovani se ne sono già andati da un pezzo e, tra nostalgia e sollievo per essere altrove, sanno bene che fuori da Palermo, comunque vadano le cose, il mondo gira ancora ed è, comunque, più a portata di mano. Attardati nei giochi di potere, i partiti aspettano, come si conviene, l’ultimo minuto per presentare candidati impresentabili su cui non si avrà mai il tempo di ragionare, di accertarne le competenze, di verificarne la capacità di governo. Sull’altro versante movimenti ed associazioni di indignati disorientati brancolano nel buio progettuale affidandosi ora ad un giovane tribuno, ora ad un’icona del passato, ora ad un’attesa messianica che resterà delusa. I competenti, gli onesti, le brillanti intelligenze, che pur ci sono, coloro che hanno idee e progetti grandi ma concreti si tengono ben lontani dall’arena di terz’ordine in cui dovrebbero scendere per confrontarsi con una città che vorrebbe solo tornare ad essere assistita e garantita dalla materna Regione siciliana come “ai bei tempi”. Farebbero la fine di consiglieri comunali illustri e riveriti quanto isolati, quali Leonardo Sciascia e Renato Guttuso e, in tempi più recenti, Letizia Battaglia e Antonino Caponnetto.

Dunque, una città morente che non riesce a scuotere se stessa da se stessa, incapace di sollecitare le migliori menti che eventualmente fossero rimaste, ad esporsi, oltre ogni appartenenza, per realizzare anche a Palermo quel governo di impegno comune, giustamente tanto riverito in questo momento a Palazzo Chigi, dal Quirinale e dall’Unione Europea. Certo, a Palermo non abbiamo alcun Monti (ma ne siamo sicuri?) né a Palazzo d’Orleans (sede del governo dell’Isola) alcun Napolitano in grado di investire con la dovuta autorità morale chicchessia (e di questo siamo sicurissimi !).

Eppure, noi siamo convinti che un appello ai migliori figli di questa città, ovunque dispersi, non cadrebbe nel vuoto. Bocconiani o meno, esiste un ceto di professionisti, intellettuali, manager pubblici e privati, imprenditori sani, magistrati e docenti universitari, raffinati musicisti che, mai disposti a scommettersi da soli, prenderebbero in considerazione l’idea di farlo insieme, superando schieramenti che non esistono più, se non nella mente di chi ha convenienza ad evocarne i fantasmi. Che escano allora allo scoperto e si riconoscano come squadra vincente. Saranno sorpresi della quantità e della qualità che è sommersa o nascosta dietro cattedre prestigiose, responsabilità imprenditoriali, risultati concreti più noti all’estero che in casa. Che si incontrino, si contino e si propongano alla città esausta, parlando il linguaggio della speranza competente e della definitiva liberazione da fantasmi del passato, amati forse e a lungo desiderati, ma non più in grado di interpretare questa, nostra, terra martoriata.

Allora l’Aquila, che il Marchese di Villabianca nei propri diari sospettava essere piuttosto una fenice, tornerà a volare alta come il falco di Federico, molto più in alto del ridicolo pennuto rosa nero cui sembra finora rimangano unicamente affidate le incerte speranze di chi non osa più sognare.

 


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