Monti, Pinocchio e il Paese dei Balocchi

“Ora non ho spiriti al mio comando, ne arte magica;

e la mia fine sarà disperata se non
sarò soccorso da una preghiera così

penetrante da giungere alla pietà stessa
e liberare da ogni colpa. Così

come voi stessi sperate nel perdono

dei vostri peccati,
così mi doni liberta la vostra indulgenza”

 

William Shakespeare

La Tempesta, Monologo di Prospero

Per quanto da più parti si tenda a riassicurare che, trascorso il tempo dell’emergenza, tutte le cose torneranno al loro posto, una tempesta mai vista si è abbattuta sulla politica italiana. Tra i lampi della crisi ed i fulmini dell’Unione Europea, è sorto un fenomeno del tutto inedito che quei medesimi lampi illuminano a tratti, lasciando che se ne intravedano solo i contorni.

 

Eppure tutti avvertiamo dentro di noi che qualcosa si è rotto nella tradizionale concezione dell’agire politico fondato sul conflitto o sul compromesso, senza mezzi termini.

 

Tutti ci rendiamo conto che il Governo del professor Mario Monti è molto diverso da altri modelli “tecnici”  sperimentati in passato e rappresenta piuttosto un nuovo limite varcato verso la post modernità, un nuovo muro abbattuto oltre il quale si apre una prospettiva che coinvolge il concetto stesso di democrazia rappresentativa  finora, pur tra mille delusioni, unica rappresentazione delle opzioni possibili per l’esercizio del potere.

 

Tralasciando per il momento ogni previsione circa l’effettiva risoluzione dei problemi del Paese, va preso atto che da alcuni giorni assistiamo a profonde mutazioni di parole, atteggiamenti, intenzioni della classe politica attuale. Persino il linguaggio usato sembra aver mutato il proprio ritmo: dagli insulti urlati alla civile contrapposizione di idee, dai gesti esibiti a una nuova compostezza, su tutto la parola sobrietà.

 

Trapassa così ciò che restava del XX secolo, tenuto in vita artificialmente nel XXI solo per l’incapacità della politica di immaginare se stessa in modo diverso. Si chiude forse l’ultima porta da cui proveniva lo spiffero della contrapposizione ideologica e del populismo posto al suo servizio.

 

Di contro, sembra affermarsi la nuova sconvolgente ma consistente sensazione che,  sottoposta alla prova delle grandi questioni globali, la Democrazia rappresentativa abbia fallito ed abbia dovuto chiamare in proprio soccorso la Cultura, la Competenza, il Sapere. Trascolora l’idea giacobina, sino ad oggi considerata sacra ed inviolabile,  di un governo di tutti attraverso l’espressione di un  consenso nei fatti sempre meno consapevole perché non più guidato dall’ideologia (ieri) o dall’antiberlusconismo (sino a pochi giorni fa). Il ceto politico tradizionale appare come smarrito, privato delle proprie certezze e, soprattutto, dei propri nemici.

 

Si ha come la sensazione che nascosta dall’utile schermo della contrapposizione la Politica abbia continuato a guardare narcisisticamente al proprio disfacimento, mostrandosi incapace di confrontarsi con le grandi questioni planetarie che, tenute fuori sino a ieri dal cortile domestico, oggi irrompono nella quotidianità dei bisogni e dei desideri della società italiana.

 

Giunta al proprio punto di rottura la Politica (tutta) ha fatto un passo indietro e ha lasciato spazio alla Competenza, senza accorgersi, tuttavia, che quel passo era l’ unica distanza che la separava dal baratro della propria estinzione. Oggi quel passo è stato compiuto e, nonostante le contorsioni e le contraddizioni del centro destra e del centro sinistra, nulla sarà più come prima.

 

Angelica Sedara, sottrattole definitivamente il focoso Tancredi, si rendeva perfettamente conto che proporre il “padano” Cavriaghi all’altera Concetta Salina sarebbe stato come offrirle dell’acqua dopo aver gustato il Marsala.

 

Allora chi può dire se, dopo il lavacro purificatore del governo Monti, gli italiani saranno disposti a tornare alle volgarità di Bossi, alle banalità di Bersani, al frusto bertoldismo di Di Pietro, all‘insignificanza di Berlusconi o di Casini o, primus inter pares, di Rutelli ?

 

I partiti, ancora una volta, pensano di sé stessi grandi cose: sono convinti di aver trovato chi farà per essi il “lavoro sporco” del risanamento, per poi riconsegnare il Paese, ancora una volta, alla loro mediocre capacità progettuale compensata solo dall’incontrollabile pulsione di acquisire il potere.

 

A Camere sciolte pensano già ora di presentarsi al Paese con le mani monde del “sangue” che altri avranno fatto, necessariamente, versare, “nell’interesse di tutti”. Si riproporranno come il ritorno alla mediazione, al riformismo, alla gradualità della transizione e non si accorgeranno che quello stesso Paese, nel frattempo, sarà divenuto più povero ma, certamente, più saggio e circospetto. Pensano oggi di riconquistare l’ingenua fiducia del frivolo burattino Pinocchio e si ritroveranno davanti l’adolescente ormai pronto a diventare uomo, ancora dolorante per la propria traumatica e necessaria evoluzione verso la consapevolezza di se stesso e del proprio destino.

 

Perché in realtà è proprio promettendo il Paese dei Balocchi che i partiti hanno portato gli italiani a risvegliarsi un mattino pronti per essere condotti al macello dei somarelli azzoppati. Il Paese dei Balocchi di Berlusconi, una delle più riuscite versioni del tema collodiano, consisteva nel sogno di un’Italia liberal, fondata sul successo, una società antipolitica e antiburocratica, un’ economia più ricca e disinvolta, una giustizia priva di lacci e lacciuoli e, soprattutto, una magistratura depurata da pericolosi “sovversivi” del potere eletto.

 

Ma, allo stesso modo, il Paese dei Balocchi evocato da Bersani, Bindi, Veltroni, Camusso e Cremaschi era tutto un fiorire di visioni post ideologiche, neo keinesiane o malamente socialdemocratiche, impossibili da realizzare perché prive di ogni collegamento con il mondo della media impresa e delle partite Iva,  dell’economia (reale) e della finanza (sana).

 

Per non parlare infine del Paese dei Balocchi, forse il più tragicamente esilarante, di Bossi e di Di Pietro, gli ultimi due Mangiafuoco rimasti in Italia, animati l’uno da scenari impossibili da realizzare a dispetto della propria (istintiva ) intelligenza ma, al tempo stesso, a motivo della propria (limitata) cultura e, l’altro, dall’allucinazione costante di un’Italia vista come una grande galera di cui esser l’unico a possedere la chiave.

 

Alla fine avrà vinto il Grillo parlante – non il ricciuto benestante comico che riempie le piazze di indignati disorientati – l’unico erede della sagacia democristiana, tardo epigono dell’immensamente “più grande” Andreotti. Avrà vinto il buonsenso pacato dei Buttiglione e dei Prodi che hanno guardato al Convegno di Todi, escludendo a parole ogni ritorno alla Democrazia Cristiana ma tessendone nel cuore l’ordito e la trama, in versione post ed anti berlusconiana, con la (segreta) benedizione della Conferenza Episcopale Italiana ed il conseguente subliminale messaggio giunto sino al Colle.

 

Nel crepuscolo degli dei minuscoli della politica italiana impallidiscono già ora sempre di più coloro che ne furono a lungo esponenti di primo piano e tra loro persino i più intelligenti e, a suo tempo, considerati enfant prodige come D’Alema, Orlando, Fini, Formigoni, Vendola, eterni secondi ormai bolsi ed ingrigiti, tanto più simili all’eterno Principe di Galles diventato l’icona universale di ciò che poteva essere e che non fu.

 

Perché il “Governo Monti”, chiunque dovesse presiederlo negli anni a venire,  succederà a se stesso anche dopo le prossime elezioni. Ne rimarrà il ricordo del fascino felpato di questi primissimi giorni e di quelli che verranno e l’impronta indelebile su un nuovo sentiero della Politica precluso sino ad oggi agli italiani perché mai indicato da alcuno che pur ne conosceva l’esistenza: il sentiero che porta dalla democrazia di massa al governo dei migliori, non per censo o per designazione da parte di supposti onnipresenti “poteri forti”, quanto per la propria capacità di farsi strada attraverso il merito duramente conquistato in una società che sarà sempre e per natura, di ineguali.

 

Essa potrà, al più, consentire nuove e maggiori pari opportunità di partenza per un crescente numero di persone ma null’altro di più. Sarà questo il nuovo banco di prova per la nuova politica di cui verranno misurate le credenziali e le potenzialità perché un “governo di impegno nazionale” diventi la normale definizione di ogni stagione politica.

 

Dopo 150 anni, forse, l’Italia diverrà maggiorenne e potrà lasciarsi alle spalle, consegnandoli alla storia, rimpianti, rimorsi e  illusioni che le hanno fin qui impedito di crescere verso la piena maturità di popolo e di società.


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