Al paradiso e ritorno: quando le “reunion” fanno male al rock

 
La “scala per il paradiso” innalzata dai Led Zeppelin esattamente quarant’anni fa, rischia di servire ai miti del rock per il percorso opposto. Leggasi anche: mesta discesa dall’Olimpo per tornare a toccare i vecchi e scricchiolanti palchi di un passato ormai lontanissimo. È cronaca di questi ultimi cinque anni lo zenit di reunion di quelle band che hanno fatto la storia. Riconciliazioni spesso figlie di necessità economiche, urgenze di notorietà, rampe di lancio per “best of”, raccolte, ennesimi greatest hits, o per semplice nostalgia dei palcoscenici. Reunion che hanno mostrato quanto le stelle possano perdere la propria luminosissima polvere e presentarsi solo come un puntino lontano e sbiadito.
 
Dunque un boom di nuove infatuazioni tra i dinosauri del rock. Proprio gli Zeppelin, la scorsa stagione a Londra, hanno fatto implodere il sito internet che mise a disposizione i ticket del loro concerto di beneficenza alla O² Arena. Pochi fortunati, tanti a restare fuori a “rosicare”. Lo show? Un grande show, per carità. A parte l’assenza del defunto Bonham, i tre vecchietti del dirigibile dell’hard rock ci sanno fare eccome. Solo che proprio in settimana i “rumors” di un nuovo tour della band hanno fatto sogghignare Robert Plant ormai alle prese con progetti di musica africana e con qualche produzione country. “Saremmo ridicoli a presentarci con sessant’anni sulle spalle a suonare ancora Whole Lotta Love o Communication breakdown” – avrà pensato il riccioluto cantante. Ed i veri amanti della band lo avranno, silenziosamente, ringraziato per questo: non si gioca con le icone, non si infrangono i vetri di un santuario.
 
Non ha certamente avuto il medesimo tatto (e molto probabilmente la medesima stabilità finanziaria) un altro riccioluto, ma bruno, ovvero quel Brian May che fu spalla di Mercury nei Queen. Una storia speciale quella della “regina”. Una carriera che prese forma negli anni ’70, che sfornò inni in quantità, che lasciò alla cronistoria il miglior live dopo Woodstock (il concerto allo stadio di Wembley del 1986). E che, probabilmente, alla storia ha consegnato anche uno dei migliori cantanti: Freddy Mercury. La vicenda del grandissimo frontman è sfortunata. Cavalcò il mondo del pop negli anni ’80, sfoggiò le sue paranormali qualità vocali che andavano dal rock alla lirica, ma poi si ammalò di AIDS e morì nel 1991 lasciando i suoi ultimi ruggiti nel disco postumo “Made in heaven”. Per i Queen fu la fine. May con Taylor e Deacon, si volatilizzarono, non c’era band senza Freddy, non con quel nome almeno. Una decade di nulla per i superstiti fino a che il chitarrista che suonava la sua “Red special” con un monetina da 6 pence, decise che il momento di riscendere dal paradiso era giunto. Ingaggia il robusto e coatto cantante Paul Rodgers e riforma i Queen. Taylor ci sta, Deacon no, gli scaraventa la porta in faccia. Questo due anni fa, oggi c’è addirittura un disco e un tour che sanciscono il definitivo ritorno. “The Cosmos rock” stringe lo stomaco, fa specie leggere quella sigla diciassette anni dopo e soprattutto con quei risultati. I fan snobbano il progetto, i familiari di May forse ne saranno contenti. E se lo sono loro, lo siamo tutti.
 
Ma la lista delle reunion è ancora lunghissima. Vedi gli Stooges di quel matto di Iggy Pop nei negozi l’anno scorso con un disco amatoriale (“The Weirdness”) e con un pezzo My idea of fun che esegue un vero e proprio scimmiottamento nei confronti della storica No fun. Oppure i Police in giro per il mondo con live piuttosto anchilosati, piuttosto ingobbiti, con un reggae ormai spento ed uno Sting stempiato e concentrato solo sulla produzione di Chianti nella sua tenuta toscana. Gli Who di Pete Townshend e Roger Daltrey che ben ventiquattro anni dopo dall’ultima apparizione ed in assenza degli scomparsi Entwistle e Moon, hanno pubblicato nel 2006 un enigmatico “Endless wire” dal rock ‘n roll di gommapiuma (oltre al fatto che, suonare oggi My Generation, sarebbe quantomeno discutibile). Seguono i Genesis che però, presentandosi senza Peter Gabriel, fanno fatica a rendere credibile il loro progressive d’annata; i Bauhaus di un Peter Murphy mai così innocuo nel disco “Go away white” del 2007 e gli Alice in Chains (tra i migliori interpreti del Grunge di Seattle) che, questo settembre, hanno annunciato di voler tornare alle stampe nonostante l’assenza (decisiva) del leader Layne Staley morto nel 2002.
 
Certo, ci sono anche i casi in cui un po’ di amarcord fa pure bene, come per Pixies, Slint e Portisehad, ma insomma la scala per il paradiso ha tanti gradini da percorrere in salita e pochissimi in discesa. Ci vogliono tanti anni per diventare eroi, ma pochissimi minuti per tornare mortali. C’è però una via di mezzo che può essere esplorata dai nostri amici rockers: mettere da parte le coppe del passato e rinnovarsi. Chi lo farà?
 
 


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