Un altro modo di fare informazione

I giornalisti dei non-vip, i giornalisti di strada, coloro che sovvertono i criteri di notiziabilità che insegnano in ogni buon corso di giornalismo. Li chiamano giornalisti sociali, quasi a sottolineare come gli altri, i giornalisti ‘normali’, abbiano dimenticato cosa voglia dire occuparsi della società, di ciò che succede intorno a loro. Di questo e altro si è parlato venerdì 25 ottobre nei locali del Medialab con Mauro Sarti, giornalista free-lance e docente all’Università di Bologna, in occasione della presentazione del suo libro, intitolato per l’appunto “Il giornalismo sociale”.

 

L’incontro, moderato dalla giornalista Rosa Maria Di Natale, ha visto anche la partecipazione della prof. Graziella Priulla, docente di Scienze politiche, che lo ha introdotto. Nelle battute iniziali si è cercato di definire i tratti caratteristici del giornalismo sociale e capire perché sia nata l’esigenza di un giornalismo dal basso, che racconti la società che quotidianamente brulica sotto i nostri occhi e non di un giornalismo, come lo definisce la stessa Priulla, “da salotto”, poco attento alle esigenze reali degli individui. Già, perché il compito del giornalista sembra essere, incredibile ma vero, quello di informare, di far capire a chi legge come stanno le cose, senza servilismi, magagne o falsa retorica. In due parole quello che la prof. Priulla definisce un “affresco falsato della realtà”. Un esempio poi risulta particolarmente illuminante per capire lo spirito che anima questo tipo di giornalismo: “il giornalista ‘normale’ quando ha bisogno di sapere cosa accade all’Università telefona al rettore; il giornalista sociale va a parlare con gli studenti”.

 

Ma chi è che fa oggi questo mestiere? Sono i nomi di Gatti, Saviano, Kapuscinski che vengono alla mente. E quello di Sarti, naturalmente, che alterna inamidate giacche da professore ai panni sporchi di chi si occupa di violenze, soprusi, malattie, e di tutti quei temi che lui stesso desidera ricordare: “fanno parte dell’essere umani e sono molto delicati e difficili da trattare per i loro risvolti morali”. E ancora: “a null’altro serve il giornalismo se non a combattere le ingiustizie, a promuovere i diritti umani, ad alleviare il dolore quando possibile”. Le tonnellate di inchiostro versato sui giornali devono avere uno scopo, insomma. Non si può fare giornalismo fine a se stesso, sembra dire Sarti, sottolineando come qualunque giornalista in realtà sia un giornalista sociale, perché nel fare il suo mestiere deve (o meglio, dovrebbe) adoperare la massima cautela pensando ai possibili risvolti che il suo tono, le sue parole e soprattutto le informazioni che egli fornirà, possano avere sui suoi lettori.

 

Ma dove si informa il giornalista sociale? Non certo sulla stampa ordinaria. Invece usa molto il web. Siti come l’agenzia Misna, Carta, Indymedia o Peace Reporter sono il suo pane quotidiano. Sarti ricorda ad esempio come, durante la tragedia dello tsunami, siano stati i missionari di Misna a fornire le primissime informazioni che poi rimbalzarono sui maggiori network e quotidiani di tutta Europa. Gli inviati esteri, data la scarsa attrattiva mediatica di quelle zone, arrivarono con i loro potenti mezzi solo alcuni giorni dopo. Ma si ricordano anche esperienze più vicine a noi come Piazza Grande, giornale ‘di strada’ dei senzatetto di Bologna, con le sue pagine piene di storie di vita vera, quella vissuta all’addiaccio senza un soldo in tasca, che in certi casi arrivano anche a superare la tiratura dei maggiori quotidiani nazionali.

 

In chiusura c’è spazio anche per dei brevi interventi ed alcune precisazioni della prof. Priulla, poi l’incontro si chiude, lasciando forse un bagliore di speranza in coloro i quali nel mestiere di giornalista ci credono davvero e non vogliono per forza ridursi a fare i giornalisti ‘da salotto’.


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