Borsellino Quater, resta il mistero sull’agenda rossa «Scritte parole pesanti, servirebbe nuovo processo»

Non si può parlare della strage di via D’Amelio senza citare l’agenda rossa. Il taccuino su cui il giudice appuntava, pare, con precisione maniacale, ogni cosa relativa al suo lavoro che mai è stato ritrovato dopo l’attentato e che tutt’ora rimane protagonista di uno dei più grandi gialli dell’intero Paese. A gettare nuova benzina sul fuoco ci pensa Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, parte civile nel processo Borsellino Quater andato in scena a Caltanissetta e di cui da poco sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza. «Andrebbe fatto un processo per il trafugamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino – spiega l’avvocato a MeridioNews – sul quale la sentenza scrive parole pesantissime. Peraltro è stato effettuato un ingrandimento sull’allora capitano Arcangioli che si allontana, pochi minuti dopo l’esplosione, con la borsa di Paolo Borsellino. Quell’uomo fu processato e poi assolto, anche perché in quel processo rinunciò alla prescrizione. Quindi la procura di Caltanissetta potrebbe procedere di nuovo contro Arcangioli».

Ed effettivamente nel dispositivo c’è un’intera parte dedicata al momento in cui l’allora capitano portava via la valigetta da lavoro di Paolo Borsellino, in cui solitamente il giudice ucciso dalla mafia riponeva proprio l’agenda rossa. La stessa borsa che è stata restituita alla famiglia molti mesi dopo, nonostante l’allora capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, avesse in un primo momento raccontato alla moglie del magistrato che era stata distrutta nell’incendio, e immortalata tra le mani del capitano del nucleo operativo provinciale dei carabinieri di Palermo Giovanni Arcangioli, «nell’atto – si legge nelle motivazioni – di allontanarsi dal luogo della strage, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano proprio la borsa del Magistrato». Arcangioli, indagato e poi assolto, ha dichiarato di avere preso la borsa dall’interno di una delle auto in fiamme per ordine di un magistrato, non ricordando se si trattasse di Vittorio Teresi o di Giuseppe Ayala, di avere controllato cosa vi fosse dentro e di non aver visto niente di che, se non un crest araldico dei carabinieri, che ha attirato la sua attenzione e alcuni fogli. Infine Arcangioli dirà di aver rimesso al suo posto la borsa, nella quale però non ricorda di aver visto nessuna agenda rossa. 

E la stessa borsa poche ore dopo, è stata prelevata da un funzionario di polizia, che racconta di averla presa dalle mani di un pompiere sui quarant’anni, mai identificato, è finita proprio nello studio di La Barbera. Il capo della squadra mobile tempo dopo avrebbe bruscamente reagito alle domande dei figli di Paolo Borsellino sull’agenda del padre, trattando l’argomento come se si trattasse di una loro invenzione, o comunque di una cosa di poco conto. Comportamento sottolineato nella redazione delle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. «Dunque, si può affermare – si legge ancora – a conclusione dell’analisi delle fonti di prova su questa tematica, che l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro. Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste. Tuttavia, alcuni dati possono senz’altro esser affermati, alla luce delle emergenze istruttorie».

Tra questi punti emersi c’è il fatto che in molti, subito dopo l’esplosione, cercassero già la borsa nei pressi del luogo dell’attentato «ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti» e che la presenza di questi ultimi, notati dalle forze dell’ordine, non fosse stata riferita ai superiori o ai pubblici ministeri che hanno indagato sull’accaduto: «La circostanza, come detto, veniva affermata dal Sovrintendente Maggi, per la prima volta in assoluto, nel dibattimento di questo processo, oltre vent’anni dopo i fatti». Anomalo anche che ai familiari di Paolo Borsellino non fosse stato notificato alcun verbale di sequestro della borsa, tutt’altro, «alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barbera le diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992». 

Ufficio in cui a portarla era stata proprio Maggi, che non aveva ritenuto necessario fare in merito una relazione di servizio, che poi redasse cinque mesi dopo. E nessun verbale neanche quando, dopo diverso tempo, La Barbera si è recato a casa di Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, per riconsegnare la borsa, liquidando le richieste di Lucia Borsellino, che chiedeva notizie dell’agenda del padre, «con un atteggiamento infastidito e sbrigativo», affermando «in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire» e consigliando subito dopo alla vedova che la propria figlia fosse in preda a delirio e che avesse bisogno di aiuto psicologico. «Un atteggiamento, questo – conclude il documento – che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre».


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