Pietro Scaglione, 47 anni fa il suo omicidio «Lui fu un persecutore spietato della mafia»

«Un persecutore spietato della mafia». Fu soprattutto questo Pietro Scaglione, procuratore capo di Palermo ucciso dalla mafia il 5 maggio 1971 insieme all’agente Antonino Lorusso mentre si trova in via Cipressi a bordo di una Fiat 1100 nera. Lo dicono le carte, i documenti giudiziari, i testimoni, i colleghi, la famiglia. Lo dice per primo Tommaso Buscetta, interrogato da Giovanni Falcone. Un uomo tutto d’un pezzo, si direbbe oggi. E ne è proprio questo il ritratto fatto anche questa mattina in occasione del convegno dedicato a mafia e antimafia negli anni Sessanta e Settanta, organizzato nell’aula magna della Società Siciliana per la Storia Patria, a piazza San Domenico. Diventato procuratore capo nel 1962, Scaglione inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri politici locali e nazionali. Era convinto che la mafia avesse origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognasse snidarli nelle pubbliche amministrazioni.

Indaga anche sulla strage di Ciaculli del 1963: «Ricordo che quella sera mio padre rientrò a casa sconvolto da quella strage – racconta il figlio Antonio -. Erano anni particolarmente difficili per la magistratura e gli organi politici. Non esisteva ancora un delitto specifico di associazione di tipo mafioso, ma la semplice associazione a delinquere. Erano completamente assenti i moderni strumenti tecnologici e informatici, e non esistevano i metodi investigativi di oggi, l’omertà era dilagante, il materiale probatorio dell’epoca si componeva di rapporti di polizia che, basati spesso su voci e indiscrezioni, non reggevano poi in dibattimento». Per non parlare della costante sottovalutazione del fenomeno mafioso, che proprio in quegli anni raggiunse il suo apice. «La mafia per molti politici non esisteva e quando se ne ammetteva l’esistenza, lo si faceva ritenendola un fenomeno emergenziale. Sullo sfondo però di un compulso scenario di assassini e stragi».

La sua morte, ne è convinto il figlio Antonio, e tutti gli altri delitti eccellenti che seguono al suo hanno contribuito soprattutto a togliere quell’alone di sporadicità dall’attività di repressione alla mafia, che da un certo punto in poi invece diventa lotta quotidiana, giornaliera, instancabile. «5 maggio 1971, 47 anni. Per ricordare quel momento e quella tragica scomparsa però è necessario andare ancora più indietro – spiega l’avvocato Alberto Polizzi, vice presidente del centro studi politico-sociali intitolato a Cesare Terranova -. Agli anni in cui la mafia fa il salto di qualità e da entità agricola presente nei feudi, con le sue leggi e il suo terrore, passa al prolifico business della droga, con l’appoggio di sponde politiche e istituzionali consapevoli e conniventi». Quello dell’avvocato Polizzi, però, più che un intervento di ricostruzione storica, è un discorso che si distingue per la portata emotiva e personale dei ricordi che oggi ha scelto di condividere.

«Erano anni di impreparazione. Lui si rivelò sin dall’inizio un magistrato moderno, il suo è stato un operare lucido. E sono convinto infatti che il suo omicidio è stato innanzitutto un intervento punitivo e preventivo, un necessario disegno mortale come ce ne furono altri dopo di lui. Lo ricordo – continua l’avvocato Polizzi – come un uomo molto cordiale, ma essenziale, cortese ed estremamente riservato. Privo di protagonismi o autoesaltazioni. Ricordo la grande professionalità e la preparazione giuridica, e il suo impegno in campo umanitario, sempre senza nessuna retorica, di cui in pochi sanno. Lui non faceva conferenze stampa, parlava con le sue iniziative giudiziarie».

Di lui restano oggi le sue intuizioni e la loro validità, come l’aver individuato il collegamento fra mafia siciliana e mafia americana, in affari per trafficare stupefacenti oltreoceano. O per aver capito, prima di molti altri, che fra i tanti complici di Cosa nostra c’erano persino la politica e le istituzioni. «Sono fatti lontani quelli di cui parliamo oggi, comportamenti umani forse di altri tempi ma emblematici di un’irrepetibile civiltà giuridica, etica e umana di cui è giusto parlare, perché quello che è stato Pietro Scaglione possa essere d’esempio oggi, in questi tempi attuali così tristi e tormentati». Un delitto, quello di Scaglione e Lorusso, che ad oggi però resta ancora senza responsabili ufficiali. Malgrado le dichiarazioni di Buscetta, infatti, nel ’91 il giudice istruttore di Genova Di Mattei stabilisce l’impossibilità di procedere contro gli indagati dell’epoca, tra cui figurano nomi del calibro di Totò Riina, Luciano Leggio e Pippo Calò, perché assenti i necessari e incontrovertibili elementi di prova nei loro confronti.


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