Cosa nostra non è cosa mia, parla un imprenditore «Ho denunciato pizzo ma Stato mi ha lasciato solo»

«Resto nella mia Palermo». Daniele Ventura è un ex imprenditore, ora assediato dai debiti per un’attività commerciale iniziata sotto i migliori auspici e finita tra richieste estorsive, denunce isolate e la paura di una vendetta da parte della mafia. Non è un eroe, ammette di aver avuto paura e di continuare ad averne. «Il coraggio, uno, se non ce l’ha mica se lo può dare» per citare don Abbondio: ma la forza di volontà, quella sì, ce la si può dare: «Ho valutato altre ipotesi, ma ho scelto di restare per cercare di cambiare qualcosa, per non darla vinta a loro».

Ora Daniele, classe 1984, ha deciso di raccontare la sua vicenda in un libro. Si intitola Cosa nostra non è cosa mia, pubblicato dalla casa editrice La Zisa, con la prefazione di Stefania Petyx e la collaborazione di Franca Stefania Lo Cicero. «Questa è la mia storia – si legge nell’introduzione – la storia di un bambino divenuto ragazzo che ha combattuto contro la sua paura più grande, una paura chiamata Cosa nostra». E di paura Daniele ne ha avuta tanta. Come non averne per un giovane che, cresciuto a Brancaccio nel quartiere di don Puglisi decide, dopo il tentativo (fallito) di iscrizione alla facoltà di Medicina, di avviare un’attività commerciale. 

«Ho sempre lavorato, ma quasi sempre sfruttato – racconta – e per questo avevo scelto di mettermi in proprio. Avevo scelto di aprire un locale tra il porto e piazza Politeama, a due passi da piazza Florio. Ero riuscito ad avere un finanziamento da Invitalia. E così era cominciato il mio sogno, con l’apertura a giugno 2011». Il New Paradise, questo il nome del bar, si trova in via Principe di Scordia, nei pressi di Borgo Vecchio. Neanche il tempo di festeggiare che appena tre giorni dopo l’inaugurazione il giovane, allora neanche trentenne, riceve «spiacevoli visite. In dialetto e con tono minaccioso mi viene detto “ma tu vai a casa delle persone senza chiedere il permesso?”. Ma io avevo tutto in regola, almeno per la legge». Non per la mafia, dunque, che intima di pagare il pizzo al nuovo arrivato. In serata. Daniele cede, temendo ritorsioni per sè e «per la zona». Eppure subito dopo aver pagato una somma di 500 euro va alla Direzione Investigativa Antimafia e denuncia i suoi aguzzini. 

Il calvario però è solo all’inizio. «I carabinieri mi invitavano a resistere, a non cedere ulteriormente – continua l’ex esercente -. Ma quelli tornano, e mi chiedono altri 250 euro per il primo mese. Intanto terrorizzavano tutto il quartiere, e così anche quella volta ho ceduto. Io nel frattempo avevo ingranato: avevo preso alcuni catering, avevo aperto la pizzeria. Poi arriva l’operazione Hybris, che azzera il mandamento di Porta Nuova, nata anche in seguito alle mie denunce. E allora dopo la retata i clienti  hanno iniziato ad abbandonarmi: già non è facile avviare un’attività in condizioni normali, ma da uno che denuncia la gente non ci va. Sono riuscito a rimanere aperto per un anno, poi non ce l’ho fatta più».

In quei neanche 365 giorni (la chiusura è avvenuta a giugno del 2012) Ventura vive ancora all’insegna della paura, tra il danneggiamento dei lucchetti e il furto della refurtiva, e l’ostracismo del quartiere. «Aprivo alle cinque del mattino – aggiunge – e ogni volta che spalancavo la saracinesca temevo che mi potesse succedere qualcosa. Ci sono state giornate in cui incassavo 15 euro al giorno, soldi con i quali non riuscivo manco a pagare la luce per tenere aperto. Così ho scelto di chiudere quando i debiti erano diventati troppo grossi». Intanto va avanti l’iter giudiziario, con la deposizione pubblica contro i suoi aguzzini. «Si trattava di gente come Francesco Chiarello, implicato nell’omicidio dell’avvocato Fragalà. Visti i soggetti, devo dire che mi è finita quasi bene».

A distanza di oltre cinque anni da quelle vicende, però, Ventura si sente solo. Riconosce il supporto di Addiopizzo, «che mi ha dato un grande aiuto dal punto di vista legale e psicologico», dell’associazione Up Palermo e della sua presidente Beatrice Raffagnino, e di persone come Ignazio Cutrò e di Gianluca Maria Calì, «che hanno storie molto simili alla mia». Ma le istituzioni però sono assenti dai suoi ringraziamenti. «Mi sono rivolto a tutti, dal presidente Mattarella all’ex premier Renzi. L’ex presidente Crocetta non mi ha mai risposto, mentre il sindaco Orlando mi ha detto che mi avrebbe aiutato ma dopo le elezioni è scomparso». E per tutti vale un ammonimento: «la mia chiusura è una sconfitta per tutte le istituzioni, così si dà il segnale che se uno denuncia resta solo. Io continuo a chiedere allo Stato di svegliarsi». La storia di questo “imprenditore coraggioso abbandonato dallo Stato ma che ha continuato a lottare contro Cosa Nostra”, come recita la quarta di copertina, ha dunque un finale amaro. Pieno di debiti non estinti e di considerazioni solo in parte intrise di speranza.

«Voglio aprire un’associazione senza scopo di lucro, per tenere viva e pulita la lotta al racket – dice ancora Daniele. E la solidarietà di adesso giunge troppo tardi, mi fa certamente piacere ma non mi può aiutare nel concreto. Se avessi un lavoro pagherei tutto, finora ho fatto quello che ho potuto. Penso di aver fatto una scelta che in pochi fanno, e certamente se fossimo di più sarebbe tutto diverso e più facile per ciascuno. Vedo che c’è una voglia di cambiamento nei ragazzi, confido in quella». 


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